«Un bluff le riforme di Praga» di Guido Rampoldi

«Un bluff le riforme di Praga» Intervista ad Hajek: «La Cee costringa il regime a lasciare il modello Breznev» «Un bluff le riforme di Praga» «La repressione qui non si attenua, semmai cambia metodo» «Mosca deve ammettere che l'intervento del '68fu un abuso» PRAGA DAL NOSTRO INVIATO Alla vigilia del summit straordinario dei Dodici sul terremoto politico in Europa orientale, i gruppi dell'opposizione cecoslovacca si apprestano a lanciare alla Cee una richiesta di aiuto, sotto forma di una dichiarazione congiunta che si sta elaborando. Il senso di questo appello si annuncia analogo a quanto ci dice nel suo villino alla periferia di Praga una delle figure più eminenti dell'opposizione: Jiri Hajek, ministro degli Esteri nel governo spodestato nell'agosto '68 dai carri armati sovietici. Afferma Hajek: «Questo è il momento per i Dodici di premere con strumenti idonei sul gruppo dirigente cecoslovacco affinché abbandoni il sistema brezneviano che ci ha separato dall'Europa. Ma altrettanto importante sarebbe se, pur rispettando il contesto amichevole delle relazioni Est-Ovest, la Comunità esprimesse a Gorbaciov la sorpresa per la posizione elusiva assunta dal vertice sovietico sulla soppressione violenta della Primavera di Praga. Se Gorbaciov non vuole perdere la credibilità e la fiducia di cui gode oggi in Europa, deve compiere un atto di coerenza con i suoi principi: ammettere che l'intervento del '68 fu una violazione della legalità internazionale». Le parole di Hajek dicono due cose: l'opposizione non crede affatto al gorbaciovismo sbandierato negli ultimi tempi dal regime; ma si considera troppo debole, disarticolata com'è dai sistematici interventi della polizia segreta, per mettere in campo i 100 o 200 mila dimostranti che potrebbero spingere Praga sulla via delle riforme politiche. Dunque, che sia l'Europa a dare una mano ai cecoslovacchi. Anche per onorare un debito che Hajek rivendica: «Qui è nata l'eresia riformista cui ora sono devoti i Paesi che allora ci mossero contro una crociata». Anche per primogenitura, gli «eretici» del '68 cecoslovacco sono rimasti di sasso quando hanno letto l'intervista rilasciata tre settimane fa da Shevardnadze ad un quotidiano polacco. Riferendosi all'invasione del '68, da cui l'attuale vertice ceco trae la sua legittimità, Shevardnadze è parso quasi giustificarla con il contesto storico di quei tempi. Professor Hajek, lei e Dubcek, che vi ritenete gorbacioviani ante litteram, come avete accolto quelle dichiarazioni? L'intervista mi ha amareggiato, come del resto ha lasciato stupefatto Dubcek. Shevardnadze riprende vecchi slogan stalinisti che lui stesso in precedenza aveva sempre rigettato. Parla di «decisione collettiva», come se l'interferenza violenta del '68 non fosse stata l'effetto delle pressioni sovietiche. L'opposizione ha elaborato un documento comune che risponde a quelle affermazioni. In sostanza noi vogliamo che i sovietici lavino questa macchia nera che deturpa la storia dei nostri rap¬ porti e la loro stessa storia. Che inficia la politica europea di Gorbaciov: perché quale «casa comune» può mai nascere, quando uno degli inquilini è costretto a vivere secondo le regole che gli sono state imposte molti anni prima dai vicini? Come spiega il puntello offerto da Mosca al vertice cecoslovacco? Con preoccupazioni tattiche e con un calcolo poco saggio. Le prime probabilmente vanno riferite al desiderio di non rompere con quel pezzo di struttura sovietica che è coinvolto nell'intervento del '68. Credo poi che a Mosca si abbia paura di manifestare un disaccordo con Praga che potrebbe destabilizzare un sistema, quello cecoslovacco, in apparenza tra i più stabili dell'Europa orientale. Ma inviterei i sovietici a considerare la lezione della Ddr. Che conseguenze avrebbe un'autocritica sovietica sul '68? Metterebbe il gruppo dirigente cecoslovacco in una condizione molto difficile. Probabilmente 10 costringerebbe a ritirarsi. Gli orientamenti del partito cambierebbero. Intravedete nel vertice cecoslovacco se non un gorbacioviano autentico almeno un Krenz? Vorremmo poterlo vedere. Ma 11 partito è stato costruito in maniera tale che tutti i potenziali riformisti sono stati sistematicamente eliminati dai posti più influenti. L'ultimo è stato il primo ministro Strougal, un anno fa. Il vertice è tuttora in mano ad una maggioranza di fautori della linea dura. Sicché anche le aperture di figure come Adamec, l'attuale capo del governo, che molti di noi seguono con una certa simpatia, hanno buone probabilità di restare un esercizio verbale. In altre parole non credete alle limitate riforme annunciate da Adamec, relative a nuove discipline per gli espatri, per la stampa, sul diritto di associazione? Abbiamo il sospetto che si tratti semplicemente di un'operazione cosmetica per nascondere la volontà di mantenere lo statu quo; dopo tutto sarebbe controproducente, per la nostra economia, se il potere mostrasse all'Ovest solo la sua faccia stalinista. Dunque giudicheremo dai fatti, non dalle promesse. Per esempio, un mio amico giurista mi dice che la procedura per gli espatri non sarà così favorevole come viene promesso, perché nuove misure amministrative complicheranno un po' le cose. Ma questo comunque ci è chiaro: la repressione non si è attenuata, semmai ha cambiato alcuni metodi; all'opposizione è vietato nei fatti persino riunirsi, in aperta violazione del paragrafo 26 degli Accordi di Vienna; e non vi è alcun segnale che il regime voglia rinunciare al monopolio del potere e della verità. Guido Rampoldi L'ex ministro degli Esteri Jiri Hajek, cacciato nel '68 dopo l'intervento sovietico