E lunedì la fabbrica va a Milano di Pierangelo Sapegno

E lunedì la fabbrica va a Milano E lunedì la fabbrica va a Milano Trecento operai pronti a presidiare la sede della società CENGIO DAL NOSTRO INVIATO «Lunedì andremo tutti a Milano». Bartolo Berta, segretario provinciale della Cisl. In piedi, il microfono in mano, nella sala mensa affollata. L'assemblea ascolta silenziosa. Vicino a lui, un altro sindacalista sventola il foglietto: «Siamo già a trecento. Iscrivetevi. Dobbiamo andare in massa all'Enimont». Fuori, sul piazzale, una signora dai capelli grigi con il cappotto troppo vecchio e il bavero alzato, ferma gli operai che hanno finito il turno: «Chi vuol venire a Milano? Chi vuol partecipare alla manifestazione di lunedì?». Sta davanti ai cancelli da un'ora, s'è appena levata un'arietta fredda ed è sceso il crepuscolo, quando sono arrivate le prime notizie da piazza della Repubblica. «L'Enimont ha posto un ultimatum: o l'Acna riapre in fretta, o si chiude per sempre». E' da ieri mattina che lo sanno, i sindacalisti hanno passato lunghe ore al telefono, fra Roma e Milano. Poi, hanno convocato l'assemblea dei lavoratori. «I padroni parlano ai giornali e con i giornali», ha urlato Angelo Billia. «Noi invece parliamo qui, fra di noi. Non state zitti, fate sentire la vostra voce, fatela arrivare fin dove potete». Per la prima volta, azienda e lavoratori non sono schierati insieme. «Noi non siamo una pallina da ping pong», dice Pino Congiu, Uil. «Nessuno può scendere da cavallo quando vuole». Così, mille tute blu riempiono la sala mensa. Sono le 14,30: alla stessa ora l'Enimont ha convocato la conferenza stampa a Milano. Non è casuale la coincidenza. Niente è casuale, qui, davanti all'Acna presidiata, nel piazzale con il tendone vuoto, gli operai che chiacchierano a capannelli e i gipponi dei carabinieri fermi a qualche metro dal cancello. Ma la scena non è quella che vorrebbe rappresentare l'iconografia classica. Non ci sono striscioni o bandiere nella sala mensa gremita, nessuno che impreca o urla, non ci sono volti arrabbiati. Eppure, non è rassegnazione questa, giura Pino Congiu. «Lo scoramento non dev'essere tra di noi». E Gianfranco Bernasconi, della Cgil, con voce piana: «Qualcuno dice che siamo alla fine. Non è così. Non credo che siamo qui per esalare l'ultimo respiro. Siamo in un momento molto delicato, questo sì. Noi stamattina ci siamo sentiti con i nostri vertici nazionali. Abbiamo mandato un telegramma all'Enimont per chiedere un incontro in tempi urgentissimi». Nessuno applaude, nessuno pare reagire. «Ieri sera appena s'erano diffuse le dichiarazioni che Lorenzo Necci aveva rilasciato alla stampa, gli operai volevano occupare la fabbrica», racconta Elvio Bagnasco, relazioni esterne. «Abbiamo dovuto far tirar giù i cancelli, cercare di calmarli». Nel piazzale assolato, Angelo Billia aveva urlato al megafono per annunciare l'assemblea: «Alle 14 dobbiamo essere in tanti qui davanti ai cancelli. Tanti e incazzati neri». E l'assemblea l'aveva aperta Luigi Pregliasco, della Uil, con dichiarazioni di guerra: «Vorrei parlare di questo pazzo di Gorzegno — Lorenzo Fontana, dell'Associazione per la Rinascita della Valbormida — che non smette un attimo di vomitare insulti. Perché abbiamo messo tre manichini impiccati in piazza, lui si sente in diritto di sputtanarci quando vuole. A quest'uomo tutto è permesso. Noi non solo dobbiamo rispondergli per le rime, ma dobbiamo denunciarlo tutti assieme, dobbiamo impedirgli di scrivere ancora sul suo giornale». Pure stavolta, però, nessuno applaude dalla platea. Gli applausi, invece, e tanti, se li prende Ennio Profumo, un tecnico, che non fa il sindacalista e che viene a parlare con voce un po' tremante, senza toni da tribuno. Dice poche cose, dice che ha assistito per la prima volta a un dibattito parlamentare e che ci è rimasto male: «Sembrava parlassero di cose astratte, come se non discutessero di un posto di lavoro e di gente che ci campa assieme alla famiglia con quel lavoro»; dice che non bisogna ancora levar bandiera bianca, che non bisogna darsi per vinti. E dopo di lui viene Gianni Cipollini, del Consiglio di fabbrica: «Hanno dipinto Cengio peggio di Hiroshima, e noi come una banda di squadristi che va in giro a pic¬ chiar la gente. Ma, guardateci in faccia, vi sembriamo davvero così?» Gianni De Micheli, Uil: «Se chiudiamo questa fabbrica, non deve essere più realizzato il Re-sol». I pochi dirigenti stanno negli uffici, al primo piano. Antonio Vigano, responsabile delle relazioni esterne, spiega a che punto sono arrivati i lavori richiesti dal governo: «Su 1360 metri di muro mancano solo i tamponi di collegamento. Ogni tampone è lungo dai 9 ai 15 metri. I lavori si completeranno il 7 dicembre. Ci vorranno 28 giorni per i collaudi, e poi altri ne passeranno perché Roma dovrà valutare tutto». Allora, l'Acna potrà riaprire i battenti. Se li riaprirà... Vigano allarga le braccia. Sul cassetto di una scrivania qualcuno ha attaccato uno stemma: «I love Acna». Un cuore e un prato verde. «Noi siamo i veri ecologisti», sorride Congiu. Chissà. Fuori, sta scendendo la sera. La signora dai capelli grigi continua a fermare la gente: «Compagno, tu vieni a Milano?». Pierangelo Sapegno