BACON A TU PER TU

BACON A TU PER TU BACON A TU PER TU Le idee, il caos, Valcol: incontro con il grande pittore DLONDRA A un po' di tempo a questa parte il campanello dell'abitazione di Francis Bacon, una casetta alquanto malandata nella zona di South Kensington a Londra, non funziona. I visitatori bussano forte e poi s'aggrappano a una ringhiera di corda mentre s'inerpicano per le scale rìpide e strette che portano alla cucina, alla camera da letto e allo studio. Bacon non può dipingere nulla che sia tanto grande da non poter passare per la porta e scendere per le scale. Nelle rare occasioni in cui l'artista permette a qualcuno di incontrarlo a casa sua, deve far passare i propri ospiti per la cucina, nella quale si trova anche una vasca da bagno, per farli accomodare in una camera da letto striminzita, che funge pure da salotto. Vive in questo spazio da più di un quarto di secolo. Considerato quasi unanimemente il più grande pittore figurativo vivente, autore di opere che recentemente sono state vendute all'asta per milioni di dollari, Bacon, presumibilmente, potrebbe vivere in qualsiasi parte di Londra. Alcuni anni fa, ad esempio, s'era trovato una dimora bellissima e spaziosa sul Tamigi. Ma le chiazze di luce riflesse dal fiume attraverso le finestre di quello studio lo distraevano troppo ed era stato quindi costretto a far ritorno in questa casa. Assai più della maggior parte della gente, Bacon è pieno di contraddizioni. Benché compia ottant'anni, gli occhioni larghi, le guance paffute, il taglio imbronciato della bocca e i capelli che gli piovono scarmigliati sulla fronte gli danno un'espressione incredibile da ragazzino. E sebbene si muova ormai con una certa cautela, la sua andatura conserva le tracce di un vivace procedere a balzelloni che era caratteristico della sua giovinezza. Sa essere intensamente riservato, ma anche schietto in maniera disarmante. Senza aver quasi bisogno di incoraggiamenti, parla con abbondanza di particolari del suo amore per l'alcol e porgli uomini, dei suoi rapporti con delinquenti e ubriaconi, della sua antipatia per taluni politici, stilisti e colleghi pittori. Basta stimolarlo un poco e racconta storie fantastiche sul suo soggiorno in Marocco con il romanziere e compositore Paul Bowles o sui suoi vagabondaggi per le gallerie in compagnia ai Giacometti («Gli piacevano tutti i quadri sbagliati», ricorda con un sorriso). I suoi amici sanno bene che può essere indisponente e imprevedibile, specialmente dopo aver bevuto un poco, ma sanno anche che è un uomo generoso, arguto e vulnerabile in maniera davvero incredibile. Pur avendo creato alcune delle immagini più inquietanti e provocatorie che mai siano state dipinte, Bacon e in realtà un individuo straordinariamente gradevole e gentile, un autentico gentiluomo. Ciò che soprattutto gli sta a cuore è esprimere opinioni sull'arte e la letteratura. Pochi giorni prima del nostro incontro, nel corso di un pranzo informale al Bcntley's di Londra a base di vino, ostriche e granchio alla diavola, Bacon aveva parlato di Vclazquez e di Degas, di Boulcz e di Freud («Chi si mette in analisi, ormai?», aveva chiesto con disarmante sincerità), di Proust e di Yeats (la grande produttività di quest'ultimo in età matura lo intriga in maniera particolare) con l'entusiasmo dell'autodidatta. Una mostra recente delle opere giovanili di Cézanne l'aveva indotto a una fiumana di commenti; anche se poi, quando la conversazione si era spostata «Le mdovrebuna sdella sui pittori americani, s'era fatto all'improvviso timido e reticente. «Fa quel tipo di donne... bravo ragazzo... come si chiama?» è, in parole povere, il succo delle sue osservazioni su Willem de Kooning. Quanto a Jackson Pollock, ebbe a dire una volta: «Non riesco a capire il senso di tutti quei suoi gocciolìi, ma ho l'impressione che non saprebbe fare bene nient'altro». Con molta sottigliezza, guida la conversazione facendo in modo che essa non si discosti mai dall'argomento che lui è preparato a discutere, sicché è quasi impossibile riuscire a farlo parlare di qualcos'altro. La cosa che gli dà soprattutto fastidio è analizzare le proprie opere: «Se se ne può parlare, a che serve dipingerle?» è una delle sue risposte predilette. E tende ad appoggiarsi a osservazioni di maniera per sviare ogni domanda da parte dell'interlocutore. Bacon si accomoda dietro a un tavolo vicino alla finestrella della sua camera da letto, dove quattro lampadine nude fissate a fili che pendono dal soffitto costituiscono nelle giornate grigie la principale fonte di luce. Nell'angolo più lontano della camera c è una brandina ripiegata, dietro due vecchi divani e un paio di mobili. In un altro angolo c'è una stufetta. Anni fa, Bacon aveva alcuni dipinti di artisti inglesi (W. R. Sickert e Frank Auerbach), ma li ha dati via. Numerose foto sbrindellate di suoi lavori se ne stanno adesso appiccicate sopra il lavandino della cucina e sulle pareti dello studio. Sui muri non c'è nient'altro. «Non riesco a vi vere con i quadri», si giustifica. Solo dopo un po' di tempo l'artista propone di dare un'occhiata allo studio. E quando lo fa, si avverte in lui una certa esitazione, come se temesse di rivelare uno dei suoi più intimi segreti. Bacon può apparire assai gioviale e aperto agli estra nei; ma può anche essere assai reticente quando si confronta con certi aspetti della propria opera. Uno di questi è appunto il suo studio. Sull'altro lato della cucina, lo studio ha la stessa sagoma della camera da letto, con in più un lucernario che Bacon stesso ha fatto installare alcuni anni fa. Un vero disastro. Vecchi tubetti di colore, stracci dismessi, pennelli, fogli di carta e polvere (la polvere l'ha incorporata in taluni dipinti, per evocare le dune di sabbia) si sono accumulati nel corso di vent'anni sul pavimento, in pile e mucchi che giungono alla cintola. Dal soffitto ciondolano lampadine nude. «Una volta ho comprato un bellissimo studio dietro l'angolo di Roland Gardens, con una luce perfetta. Ma l'ho arredato talmente bene, con tappeti, tendine e tutto quanto, che proprio non potevo lavorarci», disse una volta a un intervistatore. «Quel posto mi castrava totalmente. L'avevo sistemato così bene, che mi mancava il caos». Bacon ha osservato una volta scherzando, ma solo fino a un certo punto, che il rapporto più diretto con la pittura astratta l'ha sulle pareti del proprio studio. Le usa come tavolozze, fino a coprirle di strati policromi di colore. Su un cavalletto, c'è un piccolo ritratto di John Edwards, amico di Bacon e per parecchi anni suo modello prediletto. Tutte le altre tele sono rivolte verso le pareti e l'artista rifiuta di mostrarle. «Non c'è nulla, sopra» dice. E non si muove nemmeno per un istante dalla soglia, ansioso di andarsene via. Poi propone di fare quattro passi al Victoria and Albert Museum, prima di colazione. «Se le interessa, possiamo vedere Constable», propone. Nel giro di un paio di minuti, s'è già infilato una giacca di pelle sul maglione girocollo e s'è portato sulla scalinata d'ingresso, dirigendosi verso la strada. Nell'aprile del 1945 Bacon presentò alla Lefevre Gallery di Londra un trittico intitolato Tre studi di figure ai piedi di una Crocifissione, ora alla Tate Gallery. Le creature del trittico, in parte umane e in parte animali, mutilate e senza occhi, con i colli lunghi e i denti scoperti, se ne stavano appollaiate su tavoli o piedistalli in stanze che avevano proporzioni conturbanti, come da circo. Erano figure tracciate in maniera rapida e rabbiosa, che facevano pensare a certe opere degli Anni Venti di Picasso e di Picabia, con qualcosa che richiamava l'espressionismo tedesco. Prima d'allora, tuttavia, non s'era mai visto nulla che fosse proprio come quei Tre Studi. Le figure straziate e minacciose parevano cogliere alla perfezione lo spirito angosciato e claustrofobico di un Inghilterra martoriata dalla guerra. In un'epoca in cui anche la pittura, come molte altre cose in Inghilterra, s'era fatta snervata, quelle immagini poderose erano un segnale di rinnovata vitalità. Quanti visitarono allora la Lefebre Gallery forse non apprezzarono tali immagini, ma certo non poterono dimenticarle. Bacon aveva lasciato il segno. Nei decenni successivi, l'artista sviluppò il suo repertorio ormai celebre di figure confuse e indistinte, di papi urlanti, di carogne macellate e di ritratti distorti. Immagini che ancor oggi continuano ad attirare la sua attenzione. Immagini che hanno indotto taluni critici, a classificarlo come un surrealista o come un espressionista, spingendo al contempo gli scettici a parlarne come di un sensazionalista o di un lunatico. Bacon sostiene tuttavia di essere un realista, di non dipingere soltanto per sconvolgere. «Il cosiddetto surrealismo si ritrova nell'arte di ogni tempo», dice. «Che c'è mai di più surreale di Eschilo?». Bacon sostiene di voler soltanto riprodurre, nella maniera Ì>iù diretta e immediata possibie, ciò che un suo amico, l'antropologo e poeta francese Michel Lewis, definisce «il fatto puro e semplice dell'esistenza». Tale definizione può comprendere — sottolinea Bacon — tanto la violenza quanto la bellezza, tanto l'assurdità quanto il romanzesco. «Non si può essere più orrendi della vita stessa», ama ripetere. E tuttavia i suoi dipinti non hanno mai perso la loro ca pacità di sconvolgere. In parte anche per questa ragione i collezionisti privati non hanno mai fatto a gara per com prare le sue opere. Sebbene la sua produzione sia sempre stata assai popolare in Francia, in Italia e in Germania, essa ha suscitato di regola più rispetto che entusiasmo negli Stati Uniti e nella stessa Gran Bretagna. Il poeta Stephen Spender, uno dei più vecchi amici di Bacon, dice: «Io volevo un suo quadro, ma nessuno a casa mia ne voleva sapere». Margaret Thatcher ebbe una volta a descrivere l'artista come «quello che dipinge quei quadri terribili». E nel recentissimo film Batman. l'unico quadro del Flugelheim Museum di Gotham City che il Joker impedisce ai suoi scagnozzi di distruggere è un'opera di Bacon. Figlio di un addestratore di cavalli da corsa (e discendente da un ramo collaterale del grande statista e filosofo elisabettia¬ no), Bacon trascorse i primi anni della propria vita tra Dublino e Londra. Secondo di cinque figli, non andò mai molto d'accordo con i genitori i quali, a loro volta, non lo incoraggiarono mai nella sua vocazione di pittore. Soffrendo di asma, la scuola fu per lui un problema. Ricevette quindi un'istruzione privata in casa con alcuni ecclesiastici come insegnanti e, per il resto, dovette arrangiarsi da solo. E del suo arrangiarsi faceva parte anche un tipo di comportamento che il padre, forte giocatore e tutta via assai severo, giudicava inaccettabile. Bacon aveva rapporti sessuali con gli stallieri nelle scuderie e, una volta, venne sorpreso mentre provava a fare l'amore sulla biancheria intima della madre. Il risultato fu che il giovane venne scacciato di casa: a sedici anni, Bacon si recò a Londra e quindi a Berlino. Trascorse un po' di tempo anche a Parigi e, pur sostenendo di non essere allora interessato all'arte, ricorda di aver visto una mostra dei bagnanti surreali e biomorfi dipinti da Picasso negli Anni 20. Bacon ha dato diverse versioni dell'importanza che tale evento ebbe sulla sua evoluzione successiva. E' certo tuttavia che lasciò Parigi con un'idea assai precisa del tipo di vita che l'artista deve condurre. Bacon ha sempre coltivato di sé un'immagine di pittore istintivo, isolato e solitario, indifferente al successo: tutti caratteri che lo rendono simile più agli artisti «Crede nell( omesolta francesi degli Anni 20, che alle celebrità artistiche contemporanee. Quando giungiamo al Victoria and Albert Museum, Bacon punta subito verso una delle sale più cavernose, in cerca di un ascensore che lo porti al piano dove sono esposti i dipinti di Constable. Si perde immediatamente, chiede indicazioni a un custode, gira un'altra volta dalla parte sbagliata e perde di nuovo la strada. Quel percorso tortuoso lo porta a passare davanti ad alcune terrecotte, a una sfilza di impermeabili, a gioielli e intagli lignei medioevah. Ogni volta si lascia prendere da un effimero interesse per ciò che vede. Proprio come si sente socialmente a proprio agio tanto con i ladruncoli quanto con i ricchi clienti, così si lascia attrarre profondamente da un Turner esposto alla National Gallery o da una sedia intravista nella vetrina di Conran's mentre si reca a colazione. Finalmente, comunque. Bacon inciampa nell'ascensore e trova i Constable da lui cercati. «Sono dipinti con i quali potrei anche vivere», dice con entusiasmo, trotterellando verso i grossi schizzi per II carro di fieno e Cavallo che salta. Pur avendo trascorso buona parte della propria giovinezza nella campagna irlandese, Bacon ha dipinto pochissimi paesaggi. E tuttavia avverte un'affinità particolare con queste scene e con molti dei piccoli schizzi esposti in quella sala. Esemplificano, spiega, «lo stile libero di Constable, la sua spontaneità straordinaria». «So che nella mia produzione — continua — le cose migliori sono quelle che sono semplicemente accadute... Immagini colte all'improvviso e da me non previste. Non sappiamo che cosa sia l'inconscio; e tuttavia con una certa frequenza qualcosa ribolle in noi tutta un tratto. Al giorno d'oggi sembra un po' retorico parlare dell'inconscio e quindi forse è meglio parlare di "caso" lo credo in un caos profondamente ordinato e nelle regole del caso». Bacon non fa mai disegni preliminari, ma lavora direttamente su tele non preparate, dove un colpo sbagliato di pennello non può essere mascherato facilmente. A volte versa un secchiello di vernice sulla tela per favorire la spontaneità: «Sono costretto a sperare che il mio istinto faccia ciò che è giusto perché non posso cancellare ciò che ho fatto Se prima disegnassi qualcosa, ì miei dipinti diventerebbero semplici illustrazioni di disegni». E, ricorrendo a una delle proprie espressioni favorite, soggiunge: «Voglio creare immagini che siano una stenografia della sensazione». Le fotografie sono sempre state una fonte di ispirazione per Bacon. Moke sue idee e parecchie tecniche decisamente insolite e brillanti nascono dalle istantanee da lui tratte da giornali e riviste, soprattutto dalle celebri sequenze fotografiche di animali in movimento e di uomini che camminano, corrono o lottano, scattate da Eadweard Muybridge nell'ultimo quarto j dell'800. Nelle figure contorte, sgrazia i te o addirittura grottesche di Muybridge. Bacon coglie un re- pertorio potenziale di immagini che sono al tempo stesso banali e stupefacenti. E' appunto questa sensazione di qualcosa di improvviso e non controllato e tuttavia assolutamente fedele alla vita e realistico che il pittore vuole trasmettere con le proprie opere. Nel dipingere ritratti, fa a meno del modello e si affida esclusivamente a fotografie del soggetto e alla propria memoria. Come modelli. Bacon usa soltanto amici intimi è ha sempre paura che essi possano sentirsi offesi al vederlo armeggiare con i loro volti e a ricomporli, nonostante l'inconfondibile somiglianza che alla fine emerge. E' ormai primo pomeriggio e Bacon non ha ancora bevuto nulla. Una volta, sentendosi chiedere a che cosa ammontasse la sua vita, rispose che essa con¬ sisteva nel «passare da un bar all'altro, bere e roba del genere». Breve è il tragitto dal Museo a Hihendum, il ristorante elegante che ha sede in quella che un tempo era una fabbrica di pneumatici della Michelin e dove Bacon, accolto con il calore riservato ai clienti abituali, ha prenotato un tavolo. Ordina ostriche e la prima di quella che è destinata a essere una lunga serie di coppe di champagne. Prima che il pranzo si concluda, ha bevuto unche il meglio di due bottiglie di vino. Quando nasce l'idea di una puntai ina alla Colony Room, Bacon si mostra d'accordo. Non mette piede in quel bar da mesi. E' un locale piccolo, dalla sagoma bizzarra e dall'aria alquanto claustrofobica — non molto dissimile da molte stanze che compaiono nei quadri di Bacon — ed è quasi impossibile trovare l'ingresso dalla strada. Fotografie e caricature dei proprietari e dei clienti abituali pendono alla rinfusa sulle pareti verdescuro. La dozzina di persone che se ne stanno lì a ubriacarsi nel tardo pomeriggio sembrano assai contente di vedere l'artista. Lui pare trovarsi profondamente a proprio agio con loro e si mette a ridere e a scherzare. Sono persone che non fanno parte del panorama artistico londinese, ma che mostrano I chiaramente di sapere che è un pittore assai famoso, anche se danno l'impressione che non gliene importi niente. E' soprattutto questo a far piacere a Bacon. Offre da bere a tutta la compagnia, ordina una bottiglia di champagne e, quando è finita, ne fa arrivare un'altra. La maggior parte delle persone, a questo punto, non riuscirebbe più a reggersi in piedi, ma per Bacon siamo appena agli inizi. Nikos Stangos, della casa editrice britannica Thames &• Hudson, un uomo che ha curato molti volumi su Bacon e che conosce l'artista da parecchi anni, osserva che «Francis non si mostra mai moralmente indignato in nessuna circostanza». E in effetti, chiacchierando disinvolto bicchiere su bicchiere, Bacon ricorda, senza il minimo turbamento e senza alcun pudore, episodi come quello del suo arresto per possesso di droga nel 1970: «Al processo risulto evidente che la polizia mi aveva messo addosso la marijuana. Io soffro d'asma e quindi non fumo», commenta asciutto. «Comunque non ero preoccupato, giacché tra i membri della giuria avevo riconosciuto alcuni criminali». E tuttavia, sotto la superficie delle immagini di Bacon scorre una vena profonda di compassione e di sofferenza. Sono sentimenti che emergono a volte durante la conversazione, ad esempio quando le chiacchiere si spostano su George Dyer. Forte bevitore, Dyer fu il più intimo amico dell'artista per tutti gli ultimi Anni 60. Morì a Parigi nel 1971 in una stanza d'albergo a trentasette anni, solo due giorni prima dell'apertura di una retrospettiva di Bacon al Grand Palais. Tra il 1972 e il 1974, Bacon creò una serie di tre trittici che, nonostante le sue ripetute affermazioni sul suo non dipingere mai narrazioni, sono meditazioni trasparenti sulla morte di Dyer. Dyer, nudo o seminudo, è presentato rannicchiato nel bagno, mentre vomita in im lavandino o si raccoglie in una sedia, con un'espressione semiaddormentata o con un'aria stupita da ubriaco. Manca invariabilmente qualche parte dei suoi arti e del petto, come se fosse evaporata via. Durante la colazione da Bcntley's, Bacon aveva descritto la vecchiaia come «un deserto, giacché tutti gli amici che uno ha muoiono». I quadri dedicati a Dyer lasciano trasparire questa disperazione. Si può dire che essi esprimano soltanto un'unica forma di fede: la fede nel potere della pittura. «Io sono un ottimista, ma non sono ottimista su nulla in particolare» dice Bacon, ripetendo un altro dei suoi aforismi prediletti. «Il fatto è che ho una natura ottimistica». Indugia un attimo sulle ultime gocce di una coppa di champagne. «Viviamo, moriamo ed è tutto qui, non trova?». Michael ttimmetman («The New York Timeo Magazine») Francis liticati campii' agii alluni'anni e fa II irsi lari i Museum (// Wnxhirutiaii ufi tlctliai ima inasinì (uperla fina al 7(gennaio) clw corriprendi' 45 anni di attività, luca un ritmlta-intcriìsta tifi granfie pillare inglese:. «Le mie immagini dovreblwro essere una stenografia della sensazione» «Credo in un caos ordinato e nelle regole del caso» ( ome modelli vuole usare soltanto amici intimi i a a l o a n a . i a i l a o d . , fcrapladCmcplsa Francis lineati: «Autoritratto