SIMON A COLORI

SIMON A COLORI SIMON A COLORI « L'acacia»: un bestseller del Nobel Il cubismo influenza i miei scritti « SBOLOGNA ECONDO l'antico rito, l'Università di Bologna ha conferito quattro lauree honoris causa. Alle 17 in punto, con un sottofondo di musica medievale, il senato accademico e i docenti proponenti (tranne Umberto Eco che un po' stranito seguiva dalla platea), in toga e tocco neri vivacizzati dalle sciarpe colorate a seconda della disciplina, hanno attraversato la navata prima di occupare gli scranni sistemati nell'abside della chiesa di Santa Lucia, oggi sconsacrata Li seguivano i quattro laureati: un filosofo, un medico, un genetista e uno scrittore, Claude Simon, Premio Nobel 1985 per la letteratura, laureato per la sua «pratica del romanzo come costruzione formale e come ricerca». Benché molti dei suoi romanzi siano stati pubblicati da Einaudi, in parte nelle belle traduzioni di Guido Neri, Claude Simon non è molto noto al pubblico italiano, come d'altronde non lo è nel suo Paese. Ma L'acacia (Ed. de Minuit, 98 FI, il suo ultimo romanzo appena uscito, ha ricevuto un'accoglienza che promette una penetrazione molto più ampia che in passato. Ne L'a cada, ricompaiono i protagonisti principali del familien roman che lo scrittore è andato ricostruendo attraverso tanti suoi libri a partire da materiali quali fotografie, cartoline, oggetti, ricordi personali e racconti orali, assemblati senza regole preordinate come i ricordi o i pensieri che si affollano e si intersecano nella nostra mente. In modo più corale, col pretesto di un ritorno sui luoghi dell'infanzia, scandito in dodici ore, Simon, in un romanzo di vent'anni fa, Storia, aveva già riunito dei frammenti di memoria relativi al periodo vissuto in casa della nonna e a quello trascorso in collegio, dopo la morte della madre. Come in Storia, o ne la strada delle Fiandri', anche ne Vaca eia, la storia individuale coincide con la storia del mondo fatta di guerre, di rivoluzioni, ' di colonialismo e di antinomie tra le classi sociali. Nel caso specifico pero questa antinomia è superata dal matrimonio dei genitori del I narratore: il padre, figlio di ' contadini attaccati alla terra, i diventato ufficiale di manna sposa una signorina già in avanti negli anni, appartenente alla ricchissima borghesia terriera arroccala alle sue tradizioni. L'incipit del romanzo è suggestivo: «Esse andavano da un villaggio all'altro, e in ognuno, o almeno in ciò che ne restava, di casa in casa...». Fsse sono tre donne vestite a lutto, un'aristocratica vedova e le sue due cognate, molto di messe, che in compagnia di un bambino, nell'estate del 1919. perlustrano palmo a palmo la zona dolla Mosa dove e risul tato disperso iFloro congiunto Cercano la sua tomba Più di vent'anni dopo, il fi glio dell'ufficiale disperso, che già ha voluto recarsi in Spagna durante la Rivoluzione, viene fatto prigioniero proprio mentre combatta nei luoghi dove e morto il padre. La circostanza fa affiorare alla sua memoria tutti quei dati con cui può ricostruire, insieme ad un po' della vita del padre che non ha conosciuto, anche un altro po' della sua in fanzia e della storia delle duefamiglie da cui proviene e che, in parte, ha già descritto in altri romanzi. Oggi Claude Simon ha settantasei anni, vive tra Parigi e la sua casa di campagna nei dintorni di Perpignan, ma non disdegna i lunghi viaggi. Lo abbiamo incontrato giusto qualche ora prima del conferimento della laurea, nella hall dell'albergo Roma. Lo immaginavamo schivo e riservato, invece abbiamo trovato un uomo di spirito, affabile e brillante conversatore. Tornava da una passeggiata nella parte più antica della città che — ci ha detto subito — «parla d'arte come tutta auanta l'Italia cui la Francia ève molto perché dalla sua civiltà essenzialmente artistica ha appreso il senso della forma». E allora, partiamo dalla forma. Come mai ne «L'acacia» è meno frammentaria che nei precedenti romanzi? La scrittura, meno segmentata e più discorsiva, permette di afferrare dei periodi più lunghi della sua storia familiare e la rende più accessibile al grande pubblico. E' un punto d'arrivo della sua ricerca sul romanzo? Non so se la forma, lo stile di questo romanzo siano tanto diversi dagli altri. Certamente, nei quarantanni della mia attività di scrittore sono cambiato ma crédo che «L'acacia» risulti più accessibile perché i critici prima di parlarne l'hanno letto, cosa che in passato non succedeva. O, forse, lo ha scritto con uno stato d'animo diverso, con una voglia maggiore di raggiungere i lettori... Mah era il periodo del Nobel e dovevo interrompere quello che scrivevo perché mi invitavano dappertutto... Sì, quel premio è stato un riconoscimento gratificante che mi ha commosso, come oggi la laurea honoris causa, e ci tengo ad avere dei lettori perché sono loro che completano la scrittura, ma non so quanto abbia influito. Penso che, come dice Proust, è l'opera ad assicurarsi, col tempo, la sua posterità Infatti il pubblico si abitua piano alle opere che prima lo scioccavano... I miei libri senza finale In quest'ultimo romanzo, è vero che dei mici personaggi dico di più, ma, come sempre, non tutto. Perché è impossibile farlo. Anche il romanzo tradizio naie è fatto di frammenti ma organizzati secondo l'ordine cronologico, il che dà l'impressione di una maggiore completezza. I miei libri, non avendo uno scopo dimostrativo, non tendono a un finale e sono costruiti secondo degli imperativi di qualità. Per Proust, per esempio, gli imperativi sono stati la madeleinette intinta nel tè o la sensazione di due lastroni diseguali sotto al suo piede, nel cortile del palazzo dei Guermantes. Per lei invece lo è stato la pianta di acacia che, non nominata, innesca il flusso dei ricordi in «Storia». Il fatto che dia il titolo a un romanzo in cui si concentrano i momenti salienti del suo passato, significa che un ciclo ha liquidato i fantasmi familiari? Non lo so. Quei personaggi sono stati un pretesto per scrivere. A cominciare da L'erba in cui parlavo di una mia zia che amavo molto, tutti i miei libri sono basati sul vissuto: ne La strada delle Fiandre c'era la guerra che ho fatto, in Le palace la rivoluzione spagnola. Comincio a scrivere sollecitato da qualcosa e lavoro fino ad arrivare a un insieme armonioso. Per fare un paragone con la pittura, è come se usassi un rosso che si accorda con un verde, un azzurro che richiama un arancione, in modo da stabilire un insieme che suggerisca qualcosa. Questo è il mio modesto progetto. Prima di diventare scrittore, lei ha fatto il pittore e leggendo i suoi romanzi, si avverte la tecnica del collage, tipicamente cubista. Ma ne L'acacia, nelle lunghe descrizioni dei paesaggi o delle battaglie, ha forse guardato a modelli diversi, magari a dei classici? E' vero, il cubismo, con la sua visione segmentata della realtà, mi ha influenzato molto, d'altronde ciò che caratterizza un certo tipo di arte e letteratura contemporanea è proprio la consapevolezza che la nostra visione del mondo ò frammentaria. Già Flaubert e Tolstoj se ne erano accorti. In Guerra e Pace Tolstoj dice che l'uomo in ogni istante della sua vita è attraversato simultaneamente da una quantità incalcolabile di pensieri e ricordi mentre Flaubert, quando in Madame Bo vary dice che Emma, stando a letto inalata, rivive l'infanzia e I la casa del padre in un solo ! istante, come un fuoco d'artifi¬ cio, introduce la narrazione «per associazione» che praticherà più tardi Proust. E come Proust, come Joyce con il monologo di Molly Bloom, Picasso ha dipinto quella realtà che vedeva, e cioè dei frammenti che combinava con regole diverse da quelle tradizionali ma con l'intento di realizzare un insieme armonico. Quanto ai miei libri, essendo io sensibile alle cose visive, risentono della pittura ma non in modo preciso. Si iscrivono piuttosto nel movimento della frammentazione che d'altronde è stato anticipato, già prima di Picasso e di Mirò, da Anton Gaudi nella Casa Guell, a Barcellona. Si iscrivono anche nel movimento del Nouveau Roman, risentono della sua tecnica narrativa... Bisogna stare attenti ad usare il termine «nouveau roman», non sono d'accordo che ci sia una tecnica del nouveau roman, c'è stato un gruppo, neppure un movimento, che rifiutava la letteratura tradizionale, quella naturalista e le teorie di Sartre sulla letteratura. Detto questo, abbiamo tutti scritto in direzioni differenti. Abbiamo un grande rispetto reciproco ma non c'è una tecnica che ci accomuni. Nel 1972, in occasione del Colloque International di Cérisy su questo tema, ci si è accorti che ognuno di noi, da Robbe-Grillet, a Pinget, Sarraute, Butor e me, abbiamo lavorato in direzioni diverse a partire da un comune disinteresse per quella letteratura cui accennavo. E a New York, quattro o cinque anni fa, in un colloquio organizzato dalla University City, quando uno dei presenti ha chiesto che si parlasse dello «statuto del personaggio nel nouveau roman», ho chiarito che non esisteva perché i personaggi dei miei romanzi sono diversi da quelli di Robbe-Grillet, di Sarraute e degli altri. Voglio anche precisare che la grande rottura col romanzo tradizionale è quella operata da Proust, da Joyce, da Kafka, all'inizio del secolo, e che equivale alla grande rottura avvenuta nell'arte figurativa verso il 1913. Penso per esempio a Pi¬ casso e al suo passaggio dal cubismo analitico a quello sintetico, e trovo che sia ingiusto parlare di novità a proposito del nouveau roman quando il nuovo è avvenuto alcune decine di anni prima. Anzi, era stato intuito già nel secolo scorso. Stendhal per esempio ha fatto una grande scoperta. Aveva capito che la memoria non solo è lacunosa ma è anche costituita da elementi che si sovrappongono alla percezione originaria della realtà. La tavolozza de! romanzo Nella «Vita di Henry Brulard», quando sta descrivendo il passaggio dell'Armata napoleonica sul Gran San Bernardo, a un tratto si ferma a riflettere perché capisce che quanto sta raccontando non è soltanto il suo vissuto ma anche certi particolari raffigurati nell'incisione, attaccata al muro, che rappresenta quell'episodio e che per lui ha preso il posto della realtà. Andando più in là in questa riflessione si può affermare che è impossibile descrivere il passato, si può solo descrivere ciò che del passato affiora nel presente al momento della scrittura e in cui hanno il loro peso anche altre immagini. Noi percepiamo male, i nostri sensi sono imperfetti e la nostra memoria deforma questa percezione. Attraverso la scrittura la deformiamo ancora di più perché siamo costretti a ordinare in modo lineare ciò che ricordiamo di aver percepito. Cos'è che l'ha spinta a scrivere? Forse la lettura dei venti volumi della Commedia Umana di Balzac che il nar tare de «L'acacia» dice qì aver letto uno dopo l'altro, una volta uscito dall'inferno della prigionia? Direi di no. Balzac è un innovatore straordinario, ma per me resta un sociologo. Lui, introducendo la descrizione, elimina dal romanzo certi stereotipi e soprattutto sostituisce, all'insegnamento individuale, quello sociale. Sono state piuttosto al- Balzac nuovo come Giotto Rispetto al romanzo precedente, che aveva tutti gli stereotipi della favola, opera la stessa rivoluzione che Giotto ha fatto nei confronti della pittura del suo tempo quando ha smesso di «significare» le cose per rappresentarle e renderle più credibili a coloro che le guardavano. Come lo intende, il suo ruolo di scrittore? C'è impegno, denuncia, nell'ironia con cui descrive il colonialismo o certi aspetti della borghesia? Non è facile rispondere. Barthes ha detto una cosa importante quando ha affermato che la letteratura è un piacere, e Proust quando, unicamente alla scrittura, ha dato il valore di realtà. In effetti, noi conosciamo il mondo attraverso la scrittura e quando qualcuno, scienziato, scrittore o artista, riesce a descriverlo in modo nuovo rispetto a prima, aggiunge qualcosa alla conoscenza. Ma è soprattutto il piacere, e il bisogno, che mi spinge a scrivere. E poi, è l'unica cosa che so fare. Qualche anno fa, il quotidiano francese Liberation fece un'inchiesta tra gli scrittori sul tema: «Perché scrive?». Ho risposto: «Perché è la cosa che faccio meno peggio delle altre», e mi sono accorto che Beckett, in modo più sintetico, aveva risposto nello stesso modo: «Buono solo a questo». In un recente articolo sul «Corriere della Sera», Alain Finkielkrant lamenta la tendenza narcisistica di certa letteratura francese contemporanea sempre più lanciata nel senso dell'autobiografia. E' d'accordo? Non mi piace esprimere giudizi sui miei colleghi che sono contemporanei. Per farlo ci sono i critici. Personalmente, non mi sento affatto narcisista. Ho vissuto la vita di un europeo medio della mia epoca e ho cercato di raccontarla. D'altronde penso che si possa raccontare solo ciò che si conosce e penso spesso alla frase di Gide, che però non amo molto: «Cercate di arrivare all'universale attraverso l'approfondimento del particolare». Come vede il rapporto tra letteratura e cinema? Non ho delle preclusioni verso gli adattamenti cinematografici o televisivi. Si tratta di linguaggi diversi e tali devono restare. Siccome il mio linguaggio è molto visivo, non è troppo lontano da quello cinematografico ed è per questo che ho anche lavorato ad una sceneggiatura ricavata dal mio romanzo La strada delle Fiandre. Ma nessun produttore ha voluto realizzarlo, forse perché appariva un film poco commerciale. E ora parliamo un po' di lei, della sua vita quotidiana. Per esempio, il silenzio, che è uno dei grandi protagonsti de «L'acacia», insieme ai personaggi, alle piante, agli ambienti considerati secondo un materialismo molto lucreziano, che ruolo ha nel suo privato? Il silenzio per me è importantissimo, e sono contento che lei lo abbia notato. Per esempio, non ho la televisione in casa, e pur ascoltando volentieri la musica, passo delle ore in silenzio quando scrivo o quando penso a quello che voglio scrivere. Non riuscirei proprio a scrivere in un bar, in uno scompartimento di treno o in un albergo, come fa Nathalie Sarraute. Per me è un bisogno, il silenzio. E poi, che altro piace a Claude Simon? Una vita semplice. Vedo poca gente, ho pochi amici. Non frequento più come vent'anni fa gli scrittori del cosiddetto gruppo del nouveau roman. Allora pra il nostro editore, Lindon, a riunirci, oggi ci siamo persi di vista, ma ogni volta che incontro Robbe-Grillet o gli altri sono contento. Tra i miei rari amici c'è il pittore Pierre Soulage. Che cosa sta scrivendo? Delle cose! Paola Decina Lombardi NABOSCKOVNABOKOV PER POSTA tre letture. Però, ripeto, Balzac è importantissimo, e l'ho detto nel mio Discorso a Stoccolma. Una fotografìa del premio Nolx'f fremersi' Claude Simon. Ai*/ giurai scorsi l'Uniwrsilà di Hologna gli ha consigliato ima /durili -honoris causa»