LABIRINTI CHE PASSIONE

LABIRINTI CHE PASSIONE LABIRINTI CHE PASSIONE IL non credibile, l'ambiguo, il contrario, la metafora oscura, l'allusione, l'acuto, il sofisma». Sono queste, insiemeagli specchi e ai labirinti, agli enigmi e agli sconcerti, le figure fondamentali che bisognava tenere presente nell'Europa tra 1520 e 1650, in arte e in letteratura, se si voleva essere moderni. Sono le premesse da cui muove lo storico dell'arte belga Gustav René Hocke per abbandonarsi «con autentica voracità manierista» a raccontare «Il mondo come labirinto. Maniera e mania nell'arte europea. Dal 1520 al 1650 e oggi», un saggio uscito in Germania nel 1957 e tradotto ora in Italia da Theoria Ipp. 382, L. 45.000). Il libro esordisce citando lo sconcertante autoritratto del Pannigianino datato 1523 in i cui l'artista si ritrae di fronte ad uno specchio convesso che restituisce un volto liscio e impenetmbile ed una mano gigantesca e irreale in primo piano. Da allora in poi, questa arte «nuova», piena di effetti meravigliosi e stravaganti divenne una vera e propria moda che avrebbe caratterizzato la vita spirituale e sociale, a Roma come ad Amsterdam, a Praga come a Madrid. Non solo, ma questo rifuggire dall'espressione spontanea per afferrare il carattere metaforico ed esclusivo presente oltre la realtà, ricompare periodicamente nelle fasi della storia della civiltà europea, ogni volta che l'ordine costituito dei valori politici e religiosi diventa problematico. In questo modo il manierismo viene ad essere una costante dell'arte europea, un «fenomeno complementare al classicismo di ogni epoca» i cui vertici vengono individuati nella tarda antichità, nel Medioevo, nel XVI e XVII secolo, nell'età contemporanea. Hocke spazia da una disciplina all'altra, scavalca i limiti imposti dalla cronologia, accosta Pontorno a Matisse, Emanuele Tesauro a Breton, i manichini di De Chirico ai volti di Rosso Fiorentino, i giardini di Bomarzo alle visioni di Max Ernst. Per entrare in questo «nuovo» universo tutto manierista basta leggere le pagine sorprendenti dedicate a Castel Sant'Angelo, uno dei più grandi «objets surréalistes» della storia europea, o quella sulla natura artificiosa, sul cerchio e l'ellissi, sul paesaggio antropomorfico, sul le rappresentazioni di macchine intese come strumenti per creare «meraviglie». Il libro cita una serie di macchine di questo tipo, da quelle esistenti all'epoca di Ramsete II, in grado di camminare da sole e di annuire con il capo, ad una «Venere automatica» descritta da Aristotele; dagli androidi che entusiasmarono l'Egitto e la Grecia, agli stessi ncoplatonici che si costruivano domestiche e domestici artificiali; per arrivare ai ready-made di Man Ray o alle macchine inutili di Munari. A dispetto dell'apparente informalità e disinvoltura con cui l'autore accosta figure ed esperienze diverse, il libro è di un estremo rigore e testimonia della cultura vastissima e della curiosità intellettuale che hanno caratterizzato la figura di questo grande conoscitore d'arte, cui si deve fra l'altro il saggio parallelo a questo, più volte citato nel testo, su «Il manierismo in letteratura. Alchimia verbale e arte combinatoria» uscito dal Saggiatore nel 1965. Maria Laura Della Croce Krnr Mfiisrillt ndanges-