LA DONNA DELFINO DI LOWELL di Claudio Gorlier
LA DONNA DELFINO DI LOWELL LA DONNA DELFINO DI LOWELL e e e e OBERT Lowell, a dodici anni dalla morte, ci appare più che mai l'ultima grande figura, l'ultimo sicuro punto di riferimento, della poesia americana del seco|lo. Nato nel '17, discendente di una grande famiglia della puritana Nuova Inghilterra, Lowell attraversò tutta una sene di esperienze individuali, affrontò scelte tormentose e in apparenza contraddittorie, senza indulgenza e senza compiacimento, ma soprattutto trasformandole naturalmente in discorso. Ne abbiamo una conferma probante nella sua ultima raccolta che esce ora in italiano con il testo a fronte nello «Specchio», tradotto con maestria e rara aderenza e introdotto sottilmente da Rolando Anzilotti, purtroppo scomparso prima di vedere questo suo ammirevole tributo a un amico, // delfino e altre poesie. Dell'eredità puritana Lowell raccolse il norciolo duro, il rigore etico che lascia l'individuo a colloquio diretto con un Dio irato, seconde la definizione del teologo settecentesco Cotton Mather. In realtà. Dio è il mondo, e Lowell si trovò a confrontarsi con un mondo diviso, lacerato, mistificante, che egli non voleva né poteva convalidare. Di qui il suo impegno civile, che lo indusse a marciare contro la guerra in Vietnam, nel modo scontroso e un poco aristocratico descritto da Mailer nelle Armate della notte, ma anche le angosce personali che incisero sul suo sistema nervoso costringendolo a lunghi periodi di ricovero in clinica. A un certo punto della sua vita si convertì al cattolicesimo, ma anche questa esperienza non durò a lungo. Chi lo ha conosciuto e frequentato ricorda le sue impennate, la sua ironia risentita o beffarda, la sua risolutezza senza compromessi. A Roma, dopo una conferenza ir. cui aveva sparato a zero sui beat, gli chiesi pubblicamente quali fossero i suoi referenti positivi. Diventerò provocatoriamente formale: «No, signore!» replicò sorridendo, quasi a dirmi «E con questo? Lo sai benissimo». Difatti, lo sapevo. Il modello supremo, abbastanza insolito, era Milton. Prima il Milton epico, in seguito il Milton confessionale, senza abbandoni sentimentali. Lo constatiamo chiaramente nella sequenza di poesie //poeta Hubert I.nitrii che forma II Delfino, sicuramente il vertice di tutta l'opera. Il punto di partenza riguarda il privato, giacché il Delfino è la donna che nel '72 Lowell conosce, di cui si innamora e che sposa, avendone un figiio, senza peraltro cancellare la memoria del matrimonio precedente, il secondo, con la scrittrice Elizabeth Hardwick. Si definisce qui un tracciato unico nel suo genere, che uno dei maggiori se non il maggior poeta di lingua inglese vivente, l'irlandese Scamus Heaney, ha additato con straordinaria intensità in un articolo per la New York Review ofBooks. Lowell si serve dei materiali del quotidiano, di blocchi che degradati potrebbero sostanziare un romanzo rosa, con cosciente impudicizia, riproveratagli da molti critici americani, e che invece conferisce alla poesia un valore di continuo scandaglio. Non dimentichiamo che la confessione pubblica è una costante fondamentale della tradizione puritana: «Dopo i cinquanta così gran gioia è venuta, / che quasi non vorrei nascondere la mia nudità». E però, la gioia viene spesso giudicata un peccato, un frutto proibito dal puritanesimo, onde l'impulso a denunciare le proprie colpe: «e forse troppo ho tramato a cuor leggero con la mia vita, / senza evita¬ re danno agli altri, / senza evitare danno a me stesso / per chiedere compassione...». Parlo di scandaglio, riprendendo il termine da Anzilotti, perché i dati dell'esperienza, persino quotidiana, si trasferiscono in una simbologia marina, della pesca, profondamente innervata non soltanto nella cultura, ma nella vita della Nuova Inghilterra. Il testo di apertura dei Delfino si intitola significativamente «Rete da pesca», e nel tramaglio si intrecciano le ragioni stesse della poesia: «... so di aver allietato la mia vita / intrecciando, disfacendo una rete di corda catramata; / la rete rimarrà al muro quando i pesci saranno già mangiati / affissa come bronzo illeggibile sul futuro senza futuro». La procedura per cui dalla confessione si giunge al discorso sulle ragioni della poesia non potrebbe risultare più esplicita e più risolta. Sono lontani, anche se non ripudiati, i tempi della prima fase della poesia di Lowell, che il lettore italiano può trovare nella scelta edita da Longanesi nel '72 e già curata da Anzilotti, Poesie: 1940 1970. Allora, una retorica «alta» ripossedeva l'universo corrusco del lascito puritano e lo rovesciava dentro la realtà contemporanea per scrutarla meglio, per esporla, ma servendosene come di una maschera, che a un dato momento egli cominciò a trovare troppo protettiva per sé. L'indignazione, la denuncia, particolarmente aspra nelle opere teatrali, ad esempio il Benito Cereno tratto liberamente da Melville, gli sembrarono in qualche modo mediati. Di qui la scelta di una misura diversa, scaturita da una sperimentazione incessante passata anche attraverso la pratica delle traduzioni (da Saffo a Leopardi, da Mallarmé a Montale e a Ungaretti). Nel testo conclusivo del «poema», come Lowell lo ha chiamato, intitolato specificamente e da chi già abbiamo citato. Delfino, il verso sciolto di Lowell si piega a una nuova flessibilità per saldare senza strappi nella rete la quotidianità, il vissuto e il suo distanziamento; «I miei occhi hanno visto ciò che ha fatto la mia mano». Claudio Gorlier Robert Lowell Il delfino e altre poesie Mondadori pp. 247. L. 35.000
Luoghi citati: Inghilterra, Nuova Inghilterra, Roma, Vietnam
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