Storie d'ordinaria radiologia di Franco Giliberto

Storie d'ordinaria radiologia Da un convegno torinese di categoria tutti i dubbi della professione Storie d'ordinaria radiologia Ma chi ci rimette è sempre l'ammalato TORINO. Che complicato fare il radiologo. Abbiamo ascoltato le relazioni tecniche: molto esaurienti. Ma parecchi oratori nella prima parte del convegno hanno finito per porre una serie di domande, non so quanto retoriche, sui problemi della professione. Ho pensato: segno che la realtà è veramente astrusa; segno che assieme alle certezze tecniche esistono, ed emergono virulenti, anche parecchi dubbi, perplessità, polemiche. E' un guaio, perché in gioco alla fin fine c'è la salute della gente e piacerebbe vedere gli operatori della sanità sempre sicuri dei fatti loro, in sintonia fra colleghi medici, per nulla angustiati da ubbie culturalscientifiche, da gelosie, e da complicazioni economiche, burocratiche, sindacali. Piacerebbe vederli capaci di respingere tutti i compromessi e di risolvere secondo scienza e coscienza — cascasse il mondo — ogni questione assistenziale. Ma questo è un auspicio generico o se volete platonico (...). Senza dubbio oggi gli italiani ricevono dai giornali e dalla tv la maggior parte delle informazioni sulla salute. Da quelle informazioni in gran parte dipendono i comportamenti della gente. Ed ecco perciò che le imprecisioni, le distorsioni, le esagerazioni, gli scoop gratuiti, i resoconti contraddittori o incompleti inducono negli ammalati, ma anche negli individui sani, convinzioni sbagliate o speranze infondate. Quante volte in questi ultimi anni il cancro è stato sconfitto o li li per essere debellato nei titoli dei giornali? E quante volte è stato scoperto il farmaco risolutore, o quasi, contro l'Aids? Spulciando un quotidiano ho letto che negli Stati Uniti due ricercatori somministravano con profitto ai sieropositivi, allo scopo di addomesticare il vi- ras, un noto sciroppo per la tosse di cui si annotava il nome commerciale. Con profitto per chi? Il giornalista spesso manipola in redazione dati che non capisce appieno, spesso riporta sintesi di esperienze incontrollate e incontrollabili, accoglie pareri che suonerebbero meglio in una fiera delle vanità o in uno spregiudicato bollettino pubblicitario piuttosto che su un giornale o in tv. Ed eccomi così al secondo auspicio generico e platonico: che il giornalista diventi più capace di divulgare, impermeabile alle tentazioni medico-commerciali (...). Però, al di là di queste considerazioni ci sono le testimoniane dirette e i semplici fatti, quelli difficili da manipolare salvo dolose omissioni. Quelli che si sottraggono con la forza dell'accadimento ai pericoli delle adulterazioni. Ve ne elenco alcuni, pesanti e leggeri, che riguardano i radiologi. Pochi giorni fa è stata aperta un'inchiesta in un ospedale di Ostia, dove secondo l'accusa 12 persone si sono ammalate di cancro e 7 ne sono morte per una insufficiente schermatura (protrattasi nel tempo) di qualche apparecchio radiologico. Certo, bisognerà aspettare le conclusioni della magistratura, bisognerà stabilire i proverbiali nessi di causa tra irradiazioni, patologie sopraggiunte e decessi. Ma le schermature erano inefficaci, questo sembra davvero già accertato. Poco lontano da Ostia, nella capitale, tempo fa ero andato a fare un servizio sulla vita in un ospedale e il mio giornale aveva titolato: «I dannati dell'Umberto I». Troppa enfasi? Forse, ma io non lo credo. Nella degenza temporanea di quell'ospedale avevo visto e descritto l'ammucchiata di una settantina di malati in un unico, lurido stanzone a piano terra. Mi ricordavano i poveracci che dormono sui marciapiedi di Calcutta. E lì, con un apparecchio portatile, districandosi fra i letti in ordine sparso, venivano i tecnici. A fare una radiografia qua e una là. Quasi sicuramente centran do anche i malati del giaciglio accanto, che non avevano bisogno di lastre. E forse centrando anche gli automobilisti e i pe¬ doni di passaggio, visto che lo stanzone aveva ampie porte-finestre ad altezza d'uomo che davano direttamente sulla strada. Giorni addietro un signore palermitano, che ha voluto darmi nome cognome indirizzo e disponibilità per tutte le ulteriori informazioni dettagliate che mi interessassero, mi ha raccontato che suo fratello ha tribolato otto mesi (in Sicilia e poi con una puntata per consulenza anche a Milano) subendo una serie di esami radiografici alla ricerca dell'origine di un dolore alla spalla. E' artrosi, gli dicevano tutti, e lo rimpinzavano di Voltaren. Finché l'ultimo nuovo radiolgo palermitano, interpellato per scrupolo, solo guardando le lastre precedentemente fatte si è accorto della gravità del caso. Parole di quel testimone: «Quando l'ultimo radiologo mi ha convocato, mi ha detto che mio fratello aveva una sindrome di Pancoast, tumore polmonare. Era stupito che i suoi colleghi non avessero saputo leggere bene le lastre». A Venezia, un ragazzo paraplegico per un incidente mi raccontava amareggiato la sua storia: da sette mesi in ospedale, faceva fisioterapia dopo un duplice intervento chirurgico. Aveva la Ves alta, si sentiva debilitato. I medici gli dicevano: «Magari hai qualche carie...». E invece le barre di Harrington, credo che si chiamino così, gli si erano sganciate nella parte alta della colonna vertebrale, sfregavano i tessuti, provocavano un'infiammazione, favorivano un processo di stafilococcia. Nessuno per sette mesi gli aveva fatto una radiografia di controllo, nessuno aveva pensato a qualche altro esame che tranquillizzasse il paziente. Il giovanotto alla fine ha cambiato ospedale e immediatamente un paio di medici, appena un po' zelanti, hanno svelato il mistero: c'era una sacca di stafilococchi, ormai grande come un mandarino, sotto una scapola. L'altro giorno un capitano di lungo corso che conosco dall'adolescenza si è presentato da un cardiochirurgo a Brescia, col filmino delle proprie coronarie, e altri esami del genere, fatti in una diversa città. Il quesito era: «Professore, vale o no la pena di piantare un by-pass?». Il professore, visto il filmino, guardava circospetto e incredulo quel malato, che secondo lui avrebbe dovuto essere già morto e stecchito. Perché c era stato uno scambio involontario: al capitano di lungo corso era stato consegnato il filmino di un altro cardiopatico, assai grave. Il nome — che era giusto sulla scatoletta-involucro — non corrispondeva a quello inciso nella coda della pellicola. Ora si può anche scherzarci su. Ma non si può sorridere se una signora con un linfoma, ed è la condizione di tanti pazienti come lei, racconta atterrita di non poter ottenere le cure con l'acceleratore lineare perché nella sua regione non c'è, o perché nell'ospedale in cui doveva fare la terapia l'apparecchio è rotto, anzi inutilizzato. In una indagine di un radioterapista torinese, che tra poco dovrebbe essere resa pubblica, si fa il conto di come questo nostro Paese a macchia di leopardo ancora una volta presenti il deserto oncologico in certe sua plaghe: non un acceleratore lineare che funzioni in Sicilia, Basilicata, Campania, Molise, Calabria, per non fare che pochi esempi. E per non parlare, carità di patria, di altre cosucce che succedono al Nord. Ma allora, la responsabilità del radiologo è anche quella di non ribellarsi a un sistema assistenziale per molti versi infame? Il giornalista non sa dirlo. Se in Italia si fanno ogni anno decine di milioni di esami radiografici in certa misura inutili per quel meccanismo perverso che vede protagonisti i medici di base, spesso committenti acritici, e vede di conseguenza gli ospedali oberati, con ovvio gradimento dei laboratori privati; se nei reparti ospedalieri succede che vinca un concorso e legittimamente, si fa per dire, finisce a fare la guardia in Radiologia un medico qualsiasi, del tutto privo di nozioni radio logiche; se il radiologo non condivide alcuni esami ordinali dal clinico, eppure è costretto a eseguirli, pur considerandoli ingiustificati, inutili, con costi ; elevati e senza benefici; se il ra: diologo si assoggetta a concede! re una sproporzionata batteria ! di esami a un paziente magari raccomandato, escludendo o ritardando quegli stessi esami su 1 un altro paziente senza santoli. ' ma che ne avrebbe più urgente necessità; se acconsente a usa1 re apparecchiature dichiarate fuori uso per motivi tecnici, ma non ancora sostituite; se tollera le carenze e la gracilità delle strutture assistenziali ) del personale paramedico; se non rifiuta di compiere un certo esame, anche pericoloso, quando nella richiesta del medico curante mancano notizie cliniche e precise indicazioni sui criteri di necessità; se non compila il referto in modo chiaramente interpretabile anche da un medico inesperto di radiodiagnostica o se produce radiogrammi di scarsa qualità; se non si occupa delle perplessità che sorgono sull'uso dei mezzi di contrasto — ionici o meno — in mancanza vera o presunta di incontestabili statistiche sui maggiori o minori incidenti possibili. Se... Quanti dubbi sono emersi stamane, nella prima parte del vostro convegno. E quante storie sconsolanti sull'assistenza ! ai malati ha raccolto chi vi par; la, in quasi trentanni di giornalismo attivo. In conclusione, ha un telegrafico parere il giornalista, che è anche uomo della strada? Si. ce l'ha: egli pensa che i nostri armadi siano ancora troppo i pieni di scheletri. Franco Giliberto Una paziente si sottopone a una serie di esami radiologici

Persone citate: Harrington, Umberto I