Poeta con diritto di frode di Paolo Mieli

Poeta con diritto di frode Per Ingrao i «falsi» di Montale giornalista sono una legittima ribellione contro il capitalismo Poeta con diritto di frode DOVREMMO istituire un ministero della poesia. Comunque lo Stato dovrebbe farsi carico di sostentare tutti gli artisti. Altrimenti un poeta deve poter godere del «diritto di frode». In un mondo soffocato da «merce, scambio e denaro entrati trionfalmente nell'industria culturale, che appunto per questo oggi si chiama industria», oppresso da quello strumento «insinuante» che prende il nome di tivù, dove un gruppo di individui procede ad una «manipolazione (ma si dovrebbe dire falsificazione) attraverso cui fatti, eventi, culture vengono adattati... per la gloria dei potenti», è da considerarsi ben venuta la «frode» di un grande della letteratura italiana. Sono questi i curiosi argomenti con i quali, ieri, dalla prima pagina del Manifesto, Pietro Ingrao, ultimo grande custode dell'immaginario ideologico comunista, anch'egli poeta nelle ore sottratte alla politica, è intervenuto in difesa della memoria di Eugenio Montale. In difesa da che? Nei giorni scorsi Marcello Staglieno, sul Giornale di Montanelli, e Mario Solda- ti, nel suo nuovo libro «Rami secchi», hanno reso pubbliche alcune lettere inviate nel '50 dall'autore di «Ossi di seppia» ad un amico, il raffinato critico letterario statunitense Henry Furst, pe% pregarlo di scrivere, al suo posto, recensioni a libri anglo-americani da pubblicare, firmate da Montale, sul Corriere della Sera. Cosa che è poi avvenuta, mentre il compenso, novemila lire ad articolo, veniva da Montale segretamente girato al suddetto Furst. J.1 che, sia detto per inciso, dimostra come Montale avesse messo in piedi questo strano accordo non già per guadagnare qualche soldo in più ma per conservare anche in un momento di disagio, in cui non aveva gran voglia né di leggere né di scrivere, la collaborazione e soprattutto la firma sul Corriere. Per conservare cioè una qualificata collocazione in quell'industria culturale a cui Ingrao, invece, lo vorrebbe ostile. Comunque nessuno tra coloro che si sono pronunciati prima di Ingrao in merito al contenuto di queste lettere si è scagliato contro Montale. Tuttalpiù qualcuno, come Cesare Sucre, ha ricordato che «tutti abbiamo qualche furbizia da nascondere». Del resto è naturale che la conoscenza di questo attimo di debolezza, questo inciampo, questo piccolo cedimento di Montale in un momento nel quale soffriva particolarmente per la fatica di vivere e di lavorare, lo renda ancora più umano. Fermo restando, però, che si tratta di piccola furbizia, inciampo, debolezza, cedimento. Come quelli di cui sono piene le nostre vite in ogni Paese, in ogni società. Non, come vorrebbe Ingrao, di atto da tenersi nel conto di una suprema ribellio¬ ne alla modernità capitalistica, alla società dei consumi e delle comunicazioni di massa. Perché, incalza Ingrao, Montale «non avrebbe dovuto frodare il Corriere della Sera*? E perché non avrebbe dovuto frodare noi lettori «visto che non siamo in grado e in voglia di garantire a un poeta nemmeno la libertà di cercare, di interrogare, di interrogarsi, in ozio»? Singolari domande. Se la cultura, prosegue il leader comunista, è squassata da concentrazioni editoriali, scalate, spartizione della tv di Stato «tra i partiti al governo» (qui Ingrao incorre in una piccola imprecisione dal momento che anche i comunisti sono seduti a quel banchetto), ribellarsi, anche con un piccolo «trucco», è giusto. Per di più ben altre sarebbero le frodi che dovrebbero preoccuparci: prime tra tutte quelle dei grandi evasori fiscali, e il dover votare domenica a Roma per partiti che un alto prelato ha definito ripugnanti. Prese una per una, non c'è granché da eccepire a queste seconde stigmatizzazioni di Ingrao. Con l'aggiunta di qualche precisazione, le sue parole sono ampiamente sottoscrivibili. Eppure a metterle tutte assieme e a mescolarle con la critica più generale alla civiltà dei consumi culturali di massa di cui all'inizio, vien fuori un quadro di così astratta demonizzazione di quel che per Ingrao è stata ed è l'Italia degli ultimi quarant'anni da far nascere dei dubbi sulla maturazione in senso liberale della cultura comunista. A parte l'esser noi convinti che mai e poi mai lo stesso Montale avrebbe spiegato a quel modo l'episodio del 1950, mai avrebbe rivendicato neanche per paradosso il «diritto a frodare» il quotidiano milanese e i suoi lettori, resta la sensazione che questo tentativo di buttare in politica e in ideologia l'intera vicenda sia stonato soprattutto nei confronti dell'intensità drammatica di quelle lontane lettere a Furst. Paolo Mieli

Luoghi citati: Italia, Roma