Restano sulla nave imbandierata a lutto di Fulvio Milone

Restano sulla nave imbandierata a lutto Sulle fiancate della nave ancorata nel porto di Napoli gigantografìe di Gheddafì e striscioni di protesta Restano sulla nave imbandierata a lutto / libici: «Vogliamo visitare le tombe dei nostri connazionali» NAPOLI. Romano Argenio, capo della Digos, scuote la testa preoccupato mentre osserva la sagoma del bastimento ormeggiato al molo numero sette. Sulla «Garnata», la nave della Jamahirija, ci sono 846 passeggeri. Uno di essi, una donna avvolta in uno scialle, ha appena srotolalo uno striscione nero con uno slogan scritto in italiai no: «Non saremo soddisfatti fino a quando non ci vendicheremo)). Sulla nave, uomini e donne in prevalenza anziani, che Ghcddafi ha mandato in Italia per «piangere le vittime di trentadue anni di occupazione coloniale, dal 1911 al 1943». Vogliono raggiungere i loro connazionali a Roma, per pregare con loro nella moschea. Hanno anche intenzione di visitare Ponza, Ventotcne, Ustica, le Tremiti, dove un tempo i loro cari furono confinati. Invece celebrerapno da soli, sulla nave, la giornata di lutto indetta dal loro governo: sono privi del visto d'ingresso, e la polizia impedisce loro di metter piede sul suolo italiano. «Per quanto mi riguarda dice il vice questore Argenio — questi signori sono dei croceristi a bordo di una nave in transito. La partenza è prevista per venerdì sera». E a nulla varranno le estenuanti riunioni in prefettura e le insistenti richieste degli uomini del comitato rivoluzionario presenti; a bordo. La lunga vigilia del «giorno del pianto e della preghiera» comincia alle 8,55, quando la «Garnata» entra nel porto di Napoli con due ore di ritardo. Gli 846 «croceristi» libici sostano immobili sul ponte della vecchia nave acquistala da un armatore spagnolo, e che un tempo era dotala di piscina e night club. Ora le fiancate sono imbandierate a lutto, coperte di fotografie raffiguranti gruppi di prigionieri stretti tra le trupj pe coloniali, «le slesse che ' strapparono 5 mila persone agli affetti delle loro famiglie». Non sanno, i passeggeri, che proprio da quel molo, il numero sette, migliaia di «invasori» partirono per le coste africane. Non sanno neanche di essere al centro di un caso internaziona, le complesso e spinoso, che non troverà soluzione. Aspettano con pazienza, per ore, brandendo bandiere verdi e mostrando gigantografìe di Ghcddafi. Le donne reggono lunghi striscioni. E' un'altalena di slogan a volte tranquillizzanti, a volte minacciosi: «Non abbiamo attraversato il mare per invadere, ma per cercare i nostri parenti deportati dai colonizzatori»; «Ci anima un sacro furore contro l'Italia fascista, che ha esposto il nostro paese all'offesa e alla distruzione». Gli uomini tacciono, appoggiati al parapetto, gli sguardi fissi sui giornalisti: è un dialogo muto, fatto di gesti e di sguardi. Come quelli di un vecchio con la gamba di h;gno e di un giovane che alza il capo in segno di sfida, sollevando il braccio sinistro privo della mano. «E' solo una delle di vittime che la colonizzazione sta ancora mietendo — spiega Mohamed Ali, 32 anni, primo ufficiale di bordo —: è stato ferito da una vecchia mina abbandonata nei campi dalle vostre truppe. Sono tragedie che continuano a succedere nel nostro Paese. Due anni fa a Brack, nella città dove sono nato, un contadino ha perso entrambe le gambe, dopo aver messo il piede su una mina italiana». Volete vendicarvi? «No, noi odiamo la violenza: non dovete credere a chi dice che in Libia ci sono i terroristi». Intanto, sul molo, polizia e carabinieri brandiscono mitra e ricetrasmittenti. Un funzionario della Questura osserva allarmato una bandiera gialla che sventola accanto al fumaiolo della «Garnata». Ma a bordo non c'è alcuna epidemia; si tratta solo di un segnale di richiesta di un normale controllo medico. Possono stare tranquilli anche i sette agenti della polizia di frontiera, che con lentezza esasperante controllano uno ad uno i passaporti dei passeggeri. La formalità è del tutlo inutile, perché senza i visti d'ingresso quei documenti sono carta straccia, almeno per le autorità italiane. La «Garnata» è considerata dalla polizia come un lembo di territorio libico: terra straniera, e per giunta ostile. E' mezzogiorno, quando un portuale napoletano allunga la passerella verso la nave Quattro uomir.' scendono sul molo, e vengono subito presi in consegna dalla Digos. Sono il comandante Fauzi Mohamed e tre rappresentanti del comitato rivoluzionario. Hanno chiesto un incontro, in prefettura, con un funzionario del ministero degli Esteri giunto in gran fretta da Roma. E' l'ultima carta giocata senza troppa convinzione per ottenere il visto d'ingresso. Ma due ore di trattative si risolvono con un nulla di fatto: «Il ministero — dice il prefetto Angelo Finocchiaro — si è riservato ogni decisione. Vi faremo sapere». La risposta giungi; da Roma, quando ormai è sera: dalla «Garnata» non sbarcherà nessuno. Agli 846 passeggeri non resta che celebrare l'anniversario con un documento, due fogli scritti in pessimo italiano e lanciati fuori bordo, perché i giornalisti li raccolgano. E' un ap pollo «al governo e al popolo italiano amico: siamo venuti in pace, per visitare le tombe dei nostri parenti... La comunità internazionale e l'Onu hanno già accettato le nostri! giuste richieste (il risarcimento per i danni di guerra, ndr)... Vogliamo discutere circa il riconoscimento dei nostri diritti». Più lortimati i loro connazio nali sbarcati ieri mattina all'aeroporto di Palermo per onorare la memoria delle «vittime della colonizzazione». La motonave «Antonello da Messina» li ha accompagnati all'isola di Ustica, dove hanno potuto rendere omaggio alle tombe di 130 loro connazionali morti durante la prigionia. Fulvio Milone Con la foto di Ghcddafi. I dimostranti libici sulla nave "Garnata" ancorata nel porto di Napoli

Persone citate: Angelo Finocchiaro, Antonello Da Messina, Argenio, Brack, Fauzi Mohamed, Mohamed Ali, Romano Argenio