ZAVATTINI ADDIO

ZAVATTINI ADDIO ZAVATTINI ADDIO Un artista sempre all'avanguardia Da «Parliamo tanto di me» all'epistolario IMILANO L suo silenzio pesava oramai da gran tempo sul mondo letterario italiano, se pure esiste: o quel che sussiste, non era quello che lui ricordava e rimpiangeva. Anche se Zavattini pareva non avere mai rimpianti; era un uomo, e scrittore, e gran cineasta, che voleva sempre e ad ogni costo guardare avanti; anticipare, mai voltarsi indietro. La «Veritàaaa», mai avrebbe voluto che fosse retrospettiva. Pateticamente, provincialmente persino, Cesare Zavattini aveva la mattana, ma anche la coscienza, di essere un avanguardista non in stretto senso letterario ma nelle idee, negli atteggiamenti, nei comportamenti, nelle sue sublimi infantilità, che tuttavia erano pur sempre e di colpo sregolate ma fertili e contagiose genialità. L'avevo conosciuto poche settimane dopo l'uscita, nel 1931, di «Parliamo tanto di me»; e pur tra abbandoni e ritorni e occasionali intervalli, siamo rimasti sempre veri amici frontali. Mai titolo, come questo «Parliamo tanto di me», fu candidamente autobiografico, e mai ho veduto un uomo, meno che meno uno scrittore, portare in giro giocondamente la propria faccia tonda come Za, venuto a Milano direi quasi a inventare il rotocalco, imponendolo anche ai letterati più impettiti quanto squattrinati. Quel primo libro fu una bomba. Pancrazi gli dedicò due colonne sul «Corriere della Sera» e gli diede subito i primi posti tra gli umoristi non soltanto italiani. Seguirono nel '37 «I poveri sono matti», e Papini scrisse che era «il libro più sconcertante uscito in Italia negli ultimi venticinque anni». Nel '42 uscì «Io sono il diavolo». Ma anche se ai suoi libretti ci teneva sino all'impossibile, con puerile superbia e sgomenta umiltà, il padanissimo Za non è mai stato un letterato da tavolino. Invidiava i letterati, i rondisti, gli ermetici, ma a Milano non disdegnava di frequentare Calzini, Franci, Fraccaroli, persino Ramperti, strizzava l'occhio a Scerbanenco e al Marotta allora delle sartine, andava a donne con Carrieri, Tofanelli, Quasimodo; e poi a Roma l'avevano subito assediato i cinematografari, arrivando presto a raddrizzare le gambe a tanti cani di Cinecittà. Nessuno, credo, si è massacrato sul cinema come lui e se ne ha avuto, e meritato, trionfi anche internazionali, è sempre rimasto un dannato diurno e notturno di quel lavoro in ogni campo, salvandosi in corner tra soggetti e sceneggiature per scrivere quasi da clandestino l'«Ipocrita», «Straparole», «Non libro», eccetera. La sua vita trafelata, da infarto, è stata sempre piena di eccetera. Non l'ho mai visto dire di no a chiunque, incapace di dire di no a se stesso. Quando proprio non trovava neanche mezz'ora per scrivere, non più per gli altri ma per sé, allora ricorreva a buttar giù lettere, mentre oramai nessuno ne scrive più. Nacque così la portentosa «Lettera da Cuba». E un anno fa, mentre era ammalato, chiuso in un dolente mutismo df po la ridda continua delle sue straparole di Sletteratura e di Disarte, quasi immobilizzato e sbiadito di mente, era uscito il suo ultimo libro indiretto, intitolato non a caso «Una, cento, mille lettere», a cura di Silvana Cirillo. In un Paese spesso di lettere anonime, Za portava scritta sulla faccia la sua firma, scheggiandola in più direzioni, come volesse e dovesse parlare a tutti, anche quando sembrava parlare perdutamente soltanto di sé e che tutti dovessero unicamente parlare tanto di lui. Non riceveremo più nessuna lettera del povero, misterioso, indecifrato, folle, grande Zavattini; e continueremo allora a dare la parola ai Corvi, peggio ad ascoltarli? Caro Za, mandaci ancora qualche lettera da quell'aldilà, al quale stentavi a credere. Giancarlo Vigo rei I i l ri 'immagine di Cesare Zavattini ..l'I <:■<> 'Ai Sopra: un autori/ratio di Zavattini. Tra le sue /Missioni, anche la pittura

Luoghi citati: Cuba, Italia, Milano, Roma