ESORDI D'IMITAZIONE

ESORDI D'IMITAZIONE ESORDI D'IMITAZIONE *W W 0 ricevuto con la j ! H stessa mandata di s il posta due libri di 1 I due autori alla priM MJ ma pubblicazione. I Li ho letti in tanI ! I dem, con un occhio I (attento) ora sull'uI no ora sull'altro, fiJH. SL. no alla fine, cui allora sono arrivato (quasi) contemporaneamente. I due autori, pure esordienti, non sono più giovanissimi: l'uno è sui quaranta, l'altro sui cinquanta; e ognuno dei due ha sentito il bisogno di appoggiarsi a uno maggiore (l'uno a La Capria e l'altro a Manganelli), forse più che a scoprire le sue (eventuali) carenze, a trovare conforto per le sue (certe) ambizioni. « Così La Capria (forse richiesto) scrive la postfazione di Non ora, non qui del napoletano Erri De Luca, mentre Manganelli (certo richiesto) scrive la prefazione di Itinereide del fiorentino Piero Favini. La tentazione è di parlare dei due esordienti parlando dei due maggiori, tanta è l'omogeneità (non la qualità) di approccio alla letteratura tra i prefati e i prefatori. Infatti se per Favini la letteratura è le parole con cui si fa, per Erri De Luca è i sentimenti che esprime. Non ora, non qui è il racconto della vita che l'autore ha fin qui vissuto. Erri De Luca, a partire da una delle tante fotografie di famiglia che il padre, finché la vista lo aveva sorretto, si era dilettato a scattare, inizia un pellegrinaggio nella memoria, alla ricerca dei suoi anni di bambino, poi di adolescente, poi di adulto. II pellegrinaggio assume la forma di un dialogo, anzi di un monologo ingaggiato con la madre (da tempo morta), nella cui maestà l'autore si specchia. Il racconto procede serrato ma non tanto da evitare di stagnare, qui e là, in facili commozioni. L'autore ha un bell'adoprare un linguaggio attento, perfino duro; un bello sforzarsi di raccontare i sentimenti come fossero cose, di indurire i pensieri, con l'intento di prendere le distanze dalla materia osservata, proiettarla lontano, come se non appartenesse tanto più a lui ma fosse il riflesso del dolore del mondc^ l'autore ha un bello sforzarsi di far risuonare le parole di echi lontani ma, quando non corrà il rischio di esporle a un semplice processo di mascheramento, non riesce a strapparle al contesto di comunicazione troppo privata in cui sono pronunciate, di confessione delle angoscie e dello strazio di un individuo affatto particolare, il cui percorso autobiografico, per quante sorprese possa riservare (e quanta tensione possa contenere), non sarà molto diverso dal nostro proprio o da quello del nostro vicino. Diverso è il caso di Itinereide e del suo autore. Itinereide è un libro affatto irriferito, privo di ogni riconoscibilità cronachistica, non contiene confessioni né autodenunce, non ci intrattiene sui rapporti dell'autore con la mamma, con la scuola, con le donne, con la città e la casa in cui abita. Il verbo di Itinereide non è ricordare, è piuttosto fuggire. Fuggire dai luoghi, dai sentimenti, dai pensieri che con il loro nome sbarrano, pur protettivi, il nostro orizzonte e dilagare al di là, nella terra senza nome, dove le strade non finiscono e «i viandanti si somigliano tutti»; dove «si finisce per fare città e porti di ogni vagabondare e la memoria illumina regioni sempre più remote»; dove le parole del giorno si mischiano a quelle della notte, le parole della realtà a quelle del segno, le parole della ragione a quelle della follia; dove la rinuncia all'identità è il rifiuto di un'oppressione. Certo fuggire è più difficile che restare e molte sono le difficoltà in cui Itinereide inciampa. Voglio dire che gli smemoramenti di Itinereide, le sue perdizioni e incursioni dementi non sempre sono sostenute da un linguaggio adeguato, dotato cioè di sufficiente protezione ironicoumoristica: qualche volta (spesso?) sono affidate a realizzazioni meccaniche ottenute col ricorso all'abusata tecnica del rovesciamento per cui non è la casa ma l'addiaccio a rappresentare un riparo; non è il viandante ma è la strada a camminare; non è il giorno ma la notte a splendere di luce. (Un esempio per tutti a pag. 172, dove si può leggere «il delitto trascorre per espiare la pena». Qui il valore d'urto che la frase presume di contenere è attuato invertendo la collocazione — appunto meccanicamente — dei due sostantivi delitto e péna). Ma difficoltà e insufficienze a parte, Itinereide trasferisce al lettore una sua (se pur incerta) allegria, costringendolo a riflettere che, all'opposto, Non ora, non qui lo chiama alla pena. Il fatto è che tanto Piero Favini che Erri De Luca sono posseduti da un forte sentimento della realtà; soltanto che mentre il secondo, nel timore che (la realtà) gli sfugga, la chiude nella sua prigione (correndo il rischio di soffocare insieme ad essa), il primo tende a liberarla dalle limitazioni che i singoli (particolari) accadimenti in cui quella si manifesta rappresentano e la spinge verso sempre nuove (pericolose) avventure (certo correndo il rischio di perderla). Che poi la condizione dello stare all'aperto è più stimolante (anche se più rischioso) dell'attaccamento alle mura domestiche è cosa che a nessuno è permesso negare. Angelo Guglielmi Erri De Luca Non ora, non qui Feltrinelli r pp.9l,L 13.000 Piero Favini Itinereide La casa Usher pp. 173, L. 20.000

Luoghi citati: Manganelli