Marino Marini, le forme più vere del vero

Marino Marini, le forme più vere del vero A Milano la più completa mostra antologica: 130 opere narrano sessantanni di esperienze d'arte Marino Marini, le forme più vere del vero Tra Miracoli, Guerrieri e Gridi per i disastri del mondo MILANO OPO le recenti mostre a Milano e Pistoia (1986 e 1987), Marino Marini a Palazzo Reale (sino al 7 gennaio dell'anno prossimo): 130 opere tra disegni, bronzi, gessi, dipinti e legni, provenienti da musei e collezioni europee. Organizzata dal settore Cultura e Spettacolo del Comune, curata da Carlo Pirovano, la mostra antologica ripercorre, per cronologia e temi, nei diversi materiali, ed in questo senso pare la più completa finora, sessant'anni di esperienze dell'artista (Pistoia 1901 Viareggio 1980). Uno scultore che, come scrive Pirovano nel catalogo (edito da Electa), «non ha inventato nulla, ma è uno dei più originali ed inconfondibili del Ventesimo Secolo». Toscano ed europeo, mediterraneo e nordico, Marino Marini si forma a Firenze tra le due guerre: a quattordici anni incontra Rodin e ne rimane impressionato, a sedici si iscrive all'Accademia delle Belle Arti, segue i corsi di pittura e incisione e dal '22 quelli di scultura. Nel '26 ha il suo primo studio a Firenze, in via degli Artisti, frequentato da stranieri che collaborano a disegnare e a dipingere «a creare forme più vere del vero». Tre anni dopo si trasferisce a Monza, invitato da Arturo Martini per sostituirlo nell'insegnamento della scultura all'Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. Con opere della fine Anni Venti, legate al gruppo toscano di «Novecento», si apre la Mostra. Dipinti come il famoso Autoritratto con donna del 1927 (recentemente esposto alla mostra pistoiese «Marino pittore») o il Lanzichenecco, disegni con ritratti maschili, nudi femminili, acquerelli con paesaggi, sculture come il Cieco del '28. «Fiutano» la pista da seguire, ancora incerti tra il liberty di Chini, gli insegnamenti di Trentacoste, il luminismo di Medardo Rosso. La strada di Marino è la scul¬ tura antica: «Il mio arcaismo, i miei etruschi... Non c'è da spiegare tanto, il mio io è nato lì, i miei nonni sono quelli, è una civiltà che ancora oggi esce dalla terra». La tradizione toscana etnisca, romanica, rinascimentale riaffiora prepotente negli Anni Trenta, si mescola alle suggestioni della civiltà classica, proprio allora riscoperta dagli scavi. Si amalgama con le visioni parigine — il primo viaggio a Parigi è del '28 — di Degas e di Maillol e più tardi, nel '34, con le sculture gotiche ammirate nel Nord, come il famoso Cavaliere di Bamberg. Nascono le statue immobili, silenziose, sospese nel mito, che vediamo nella prima sala: turgide figure femminili, ancora sfiorate dalla luce (Bagnante 1934, Ragazza seduta 192930), maschere dal sorriso enigmatico, un beli'Autoritratto del '30, e poi il Piccolo angelo, presentato adesso come documento eccezionale: scolpito in pietra nel '33 per la Quinta Triennale, perduto tra le ma¬ cerie della guerra, è ricomparso grazie ad un fotografo col nuovo titolo di Donnina di Milano. E ancora un grande e suggestivo Icaro di legno, un ragazzo del popolo trasformato in eroe del mito, Ersilia, un'icona borghese e solenne. Si definiscono contemporaneamente i grandi temi, che accompagnano fino alla fine l'opera dell'artista: Ritratti, Pomone, Cavalieri. Ne vediamo una serie straordinaria in pietra, gesso, legno, dipinti su tela. Che cos'è il ritratto per Marino? Introspezione psicologica, indagine fisica e psichica, rivelazione del carattere e di un'epoca. Lo dicono gli splendidi bronzi della Signora Verga, di Fausto Melotti, del '37, la scorbutica Madame Melms, del '43, la dolce e sensitiva Marina (la moglie), l'inquieto Lamberto Vitali, sino all'intenso volto di gesso di Mies van der Rohe, del '67. Forme solide, quattrocentesche, ma anche di mate¬ ria sfatta e frantumata negli ultimi anni. «Il ritratto — scriveva Marino — è il modo più diretto per entrare nel mondo dell'umanità. Il nostro secolo è rappresentato e descritto storicamente sul volto degli uomini. Possono essere scrittori, artisti, politici, ma anche industriali e commercianti...». Accanto ai ritratti, e nelle sale successive, spiccano formosi i nudi femminili delle Pomone, simboli di fertilità, tratte dalla tradizione latina. Blocchi compatti e assorti negli Anni Trenta, contorti in sensuali chiaroscuri o in tormentati bronzi nel periodo bellico, scoppi di colore acceso nel '50, seguono tutto l'iter dell'artista. Ma è soprattutto nei Cavalieri che si coglie la grande galoppata di Marino nell'arte e nella vita. I primi, come il grande Cavaliere di legno dei Musei Vaticani del '35-'37, sono eroi mitici, solidi e forti, che riprendono la tradizione, dal Marco Aurelio, Capitolino, al Colleoni e al Gat- tamelata. Riflettono, certo, il decennio fiducioso '30-'40: insegnamento a Monza, viaggi a Parigi e nel Nord-Europa, contatti con l'arte internazionale, successo a Biennali e Triennali. Ma, nel '40, la guerra, il rifugio a Locamo fino al '46, portano immagini diverse: cavalli e cavalieri irrequieti, afflosciati, satirici come in quel piccolo altorilievo in bronzo del '43, o nelle decine di bellissimi disegni. Marino ha preso coscienza del momento storico: «Nel '43 ho fatto qualche Cavaliere goffo, obeso, con l'elmo in testa. Intendevo esprimere il ridicolo dell'esaltazione di un uomo che vuol comandare, che si crede grande ma che non ha nessuna ragione di crederlo, perché grande non è...». Le allusioni al condottiero del momento sono chiare. Il mito, insomma, si è già inclinato per lasciare spazio all'uomo ed al suo tragico destino. «Gli uomini hanno scoperto qualcosa che è più grande di lo¬ ro, che non riescono più a dominare, che diventa pericoloso per l'umanità. L'artista avverte tutto ciò come e cento volte più degli altri e moltiplica questa paura...». Le forme, armoniche, si aprono in tagli e buchi, si contorcono in linee che fanno pensare a Calder e a Picasso, diventano dinamiche. Ed ecco l'ultima eccezionale serie dagli Anni Cinquanta alla fine: cavalli che si impennano, nitriscono, cadono, uomini che scivolano impotenti dalla groppa, che tendono braccia e gambe. Sono Miracoli, Guerrieri, Gridi, che tentano una disperata quanto inutile difesa. Li vediamo, nelle ultime sale, sempre più scheletrici, mutilati, ridotti a blocchi e a forme astratte di grande espressività, dallo splendido Cavaliere in gesso, del '53, dei Musei Vaticani, al drammatico Miracolo, in bronzo, del '53-'54, sino agli ultimi squadrati, cubisti del '60-'70. Maurizia Tazartes Toscano e europeo mediterraneo e nordico Marino Marini a 14 anni incontra Rodin. Neanche trentenne riceve la cattedra di Arturo Martini. E' il bruciante inizio della carriera d'uno dei più originali scultori del XX Secolo. Usò la pietra, il gesso, il legno. Dipinse sulla tela. Raccontò Icaro e gli Etruschi "A sinistra Marino Marini nel suo studio (1953). A destra, «Giovinetta» (1939, particolare)