Ha vinto un ometto Chiappucci
Il doping fra i pesisti L'indagine di Savona chiarirà? Il doping fra i pesisti ROMA. «Noi, i forzati del doping. Ci hanno obbligato a' drogarci, a iniettare nel nostro corpo gli steroidi anabolizzanti. Ribellarsi? Inutile, bisogna esserci dentro per accorgersene: è una spirale perversa, alla quale non si può sfuggire. Ti dicono che se non prendi quella roba non vinci. E vincere è ormai l'unica cosa che conta. Non importa con quale mezzo e a prezzo di quali rischi. Poi una mattina ti alzi e scopri di avere l'ernia del disco, mentre alcuni tuoi colleghi cominciano misteriosamente a soffrire di mastite. E un altro, poveretto, è diventato impotente...». Il mostro del doping torna ad agitarsi fra le pareti dello sport italiano, evocato dalla denuncia di Pietro Pujia, un sollevatore di pesi che ha partecipato alle Olimpiadi di Seul nella categoria dei 75 chilogrammi. Le sue parole si leggono in un esposto presentato un anno fa alla Procura della Repubblica di Savona. Non è la prima volta che gli steroidi irrompono in questo sport, che una pervicace volontà auto-distruttiva sta cercando di trasformare, con ottimi risultati, in un fenomeno da baraccone: una vicenda analoga gettò l'ombra del dubbio sulla medaglia d'oro conquistata da Oberburger a Los Angeles '84. Ma con le dichiarazioni di Pujia, qualora venissero provate in sede giudiziaria, si farebbe un inquietante passo avanti: l'uso del doping non sarebbe più neppure una libera scelta dell'atleta, ma un'imposizione dall'alto, e un'imposizione coercitiva, per giunta: o accetti questa regola o stai fuori. E infatti il reato ipotizzato dalla magistratura, oltre all'importazione illegale di farmaci, è quello di violenza privata. L'indagine condotta dal dottor Michele Russo ha partorito dopo dodici mesi tre comunicazioni giudiziarie, i cui destinatari sono dirigenti della nazionale che hanno lavorato a lungo presso il centro di sollevamento pesi di Savona. In attesa di interrogarli all'inizio della prossima settimana, il magistrato ne nasconde i nomi dietro una pellicola di comprensibile silenzio. L'identikit dei tre personaggi suggerisce comunque di concentrare la ricerca verso un gruppetto che all'epoca dei fatti frequentava assiduamente la palestra ligure: Claudio Polletti, direttore tecnico della squadra azzurra; Douba Woycek, il suo «vice» polacco, attualmente non più residente in Italia, e il dottor Daniele Faraggiana, un medico della Federazione di atletica leggera che cominciò a collaborare con la nazionale di sollevamento pesi proprio alla vigilia di Seul. La posizione di quest'ultimo viene alleggerita dallo stesso Pujia, che assicura: «Non era il medico a somministrarci gli anabolizzanti. Comunque, lo ribadisco, in palestra giravano strani scatoloni...». E a chi gli fa notare che a Seul nessun sollevatore italiano è rimasto impigliato nel rastrello dell'anti-doping, l'accusatore replica: «Solo due dei nostri si dovettero sottoporre ai controlli. E poi lo sapete, no? Basta interrompere la cura venti giorni prima della gara per farla franca...». Il direttore tecnico Polletti, rintracciato in serata, ha ammesso di aver ricevuto la comunicazione giudiziaria, ma nega ogni sua responsabilità nella vicenda. Il Coni, per il momento, tace. Gattai e Pescante, presidente e segretario, sono ad Atene per una riunione internazionale: si occuperanno della vicenda al loro ritorno a Roma. Nel frattempo, la parola alla difesa: Matteo Pellicone, presidente della federazione di sollevamento pesi: «Il direttore tecnico Polletti ha negato tutto. E io allora ho deferito Pujia alla commissione discplinare. Il doping è un male che noi combattiamo. Siamo una delle poche federazioni che attuano i famosi controlli a sorpresa presso atleti e società». Per vederci più chiaro il magistrato di Savona ha invitato gli atleti della spedizione coreana a rompere il muro di omertà e a fare una capatina nel suo ufficio. Ma ci andranno davvero? Massimo Gramolimi
Luoghi citati: Atene, Italia, Los Angeles, Roma, Savona
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