GUCCINI ROMANZIERE: UNA BALLATA DI NOSTALGIA PER LA MIA PA\ANA di Luciano Genta

GUCCINI ROMANZIERE: UNA BALLATA DI NOSTALGIA PER LA MIA PA\ANA GUCCINI ROMANZIERE: UNA BALLATA DI NOSTALGIA PER LA MIA PA\ANA IBOLOGNA N trattoria, all'ombra delle Due Torri, sfogli Cròniche Epafàniche, il primo romanzo di Francesco Guccini, uscito ieri da Feltrinelli (pp. 179, L. 20.000), e con i tortelloni al basilico ti arriva la battuta: «Se vede Francesco, gli dica che ho qui le cartoline della sua Pavana». Vai in via Paolo Fabbri 43, proprio quella della canzone, e il taxista attacca: «Come sta Francesco? Avevo un bar vent'anni fa: partite a carte, bottiglioni, chitarra. Quante storie tirava fuori». A tutti gli amici sembra naturale che Francesco si sia deciso a scrivere quelle storie e che tutte ruotino intorno al luogo magico della sua infanzia: la piccola Pavana, 500 anime sull'Appennino pistoiese, nella valle del Limentra, né Emilia né Toscana, dove «ti passa il tempo che non te ne accorgi neanche». Lì Guccini è sfollato dalla natia Modena, negli anni di guerra, bambino tra i vecchi: il nonno Francesco capostipite del grande Mulino dove con il grano e le castagne si macinavano le storie della vita; la nonna Maria, «buona crudezza di popolo, culo al culo carattere e via»; lo zio Merigo, emigrante in America, a far mine e spicconate, la Ziapìna nella sua bottega odor di tonno e baccalà, prèsciutti e marmelate, Doppio Kummel e Tabacco d'Harar. Lì, come Huck Finn, Francesco ha scoperto il fiume — un torrente ma per lui il Mississippi — dove nuotare nei pozóni, pescare la lasca e l'anguilla sguillosa, «rifare» Sandokan o il capitano Nemo, spiare i più grandi argufolati con le patòzzc tra le vétiche. Lì ritorna ogni estate, ha ricomprato casa, i suoi cugini hanno recuperato il Mulino. Un'infanzia perduta Tutto per nostalgia? «E' un luogo magico che non ho mai più ritrovato. So che non può tornare, come l'infanzia. Nemmeno il coniglio mi riesce più di fare come quello della nonna: è che son cambiate anche le nostre papille "morali". Quei tortellini natalizi non li mangeremo più, perché non c'è più quella attesa della festa». Ma Guccini non nasconde il dolore, la violenza di quel mondo. Non idealizza un passato, «per tanti aspetti così privo di tutto: avanti e vita lesta, rnanghiar poco e lavorar da be(sc)tia». Di soddisfazioni «tante non ce n'erano e si prendevano dove si poteva»: «i filme di caubòi», «l'aradio» che «ciàveva anche l'Occhio Magico», le cingomme degli americani, la camicia bianca alla messa delle undici la domenica, le «vilegianti sofistiche». La natura non è oleografica: la piena del fiume non risparmia il Mulino. La campagna non è un idillio: il maiale si ammazza con lo scannino acuminato, «l'umile rughi-rugante bestia muore come un cristo sanguinante». Ma in quell'angolo di mondo c'era posto per tutti, matti zavattiniani e «ligere» alla Montaldi: «Il paese non rifiuta, non scarta, non emargina, tutti son parenti di tutti». Vecchie Clark, jeans, maglione sangiovese, Guccini è quello di sempre. Certo, la barba è più bigia, anche per i «miti giovanili» scoccano i 50 anni. Continua ad abitare nel suo quartiere di periferia, edilizia popolare, un viale di case a un piano in mattonelle rosse. Nello studio non si vedono dischi e chitarra,. Solo libri, fino a! soffitto, per un lettore onnivoro, da Pinocchio a Borges. Alle pareti foto di Pavana e gruppi di famiglia primo '900. Sul tavolo un personal Macintosh: «Con quello sono riuscito a scrivere il romanzo. Sono pigro e disordinato, buttavo giù pagine e le perdevo o non sapevo poi come rimetterle insieme. Con il computer ho potuto abbandonarmi alla velocità dei ricordi e ogni volta tornare indietro e ritrovarli, integrarli, correggerli, senza perdere in spontaneità. Il difficile è stato mettersi in moto... Io sono un diesel. Per le canzoni, no. E' diverso: ho bisogno proprio del foglio di carta bianca, bello largo, per vedermi davanti tutte le parole, partire da una, con dentro il nocciolo della trama, e andare in cerca di emozioni». Anche nel romanzo i fans del cantautore ritroveranno i personaggi, i luoghi e soprattutto il ritmo delle sue ballate. Sono pagine impastate di suoni, odori, sapori, colori, «da vedere e ascoltare», ha scritto Roberto Roversi, «padrino», con Stefano Benni, di questo debutto narrativo. Dice Guccini: «Ho cercato soprattutto di ricreare l'immediatezza, la spontaneità della narrazione orale. La società dello spettacolo ci ha abituati a consumare tutto molto in fretta. Una cosa vista o sentita una volta o due è già logora, a meno che non diventi oggetto di culto. Perché invece le favole della nonna non ci annoiavano mai? Ogni volta che torno su a Pavana mi faccio ripetere le loro storie: conosco l'inizio e la fine, ma non conta l'intreccio, il colpo di scena. Il piacere sta proprio nel sentir raccontare, cogliere gli umori della voce, la coloritura del linguaggio». Riscoprire i dialetti Proprio la ricerca di quel linguaggio è la linfa delle Cròniche Epafàniche, gioco etimologico tra Pavana e Epifania, che tutte le feste si porta via. Guccini lavora da anni a un dizionario del dialetto pavanese, riscopre e cataloga le parole degli avi. Il suo è un italiano impastato e rivitalizzato dagli incroci dialettali. Non c'è nulla di naif. In appendice al romanzo ha messo un glossario, con scrupolose note filologiche, rimandi alla Crusca, confronti con Dante e D'Annunzio. Fa un esempio: «Rovai io era per i nostri vecchi la tramontana. Antico e letterario, dicono i dizionari. Attuale e popolare, sembra a me. Anche nelle canzoni cerco di usare un doppio linguaggio, di provocare salti di tensione tra l'aulico e il popolare. I dialetti sono un patrimonio enorme per arricchire la nostra lingua di ogni giorno, inquinata di gerghi tecnici e frasi fatte». Anche lui, come il Moretti di Palombella rossa, non sopporta i cliché, i birignao, le mode inutili, «quelli che alla Domenica sportiva chiamano mister l'allenatore» o i suoi amici discografici, sempre in bilico tra «budget e target», mentre lui sta a «mixare» in sala d'incisione. Ma non si atteggia a purista: «La lingua è vita, si fa giustizia da sola. Le parole appaiono e scompaiono. Non mi illudo di poter difendere a ogni costo dialetti moribondi, né voglio imbalsamarli in un museo. D'altra parte l'italiano parlato è una lingua giovanissima, piena ancora di regionalismi, se uno tende l'orecchio le differenze si sentono». All'italiano standard della tv Guccini oppone la minuziosa precisione di lingue antiche che «non conoscevano vaghezza»: noi diciamo «quella roba»; nei dialetti ogni cosa ha il suo nome preciso. Nel romanzo c'è a ogni pagina il piacere di elencare e classificare, con un'ingordigia rabelaisiana, piante, erbe, frutti, animali, cibi, attrezzi di lavoro. Si intrecciano fili di letture disparate, dal Pataffio al primo Celati. Ma Guccini riconosce come modello linguistico soprattutto il Meneghello di «Libera nos a Malo», solo che lui direbbe «Dona nobis hodie Pavanam» tanto è l'amore per quella terra. Le Cròniche Epafàniche si chiudono con un «memento» ai «nipoti dimentichi» che vorrebbero affrancarsi da un passato che disprezzano: «E' sacrosanto cercare di liberarsi dalla miseria, ma perché rinnegare le proprie radici? Per quale contropartita? Plastica e tv? Se penso che l'agognato tempo libero, allora una conquista irraggiungibile, è diventata per molti un'angoscia...». Per non dimenticare, ora vorrebbe scrivere le sue Cronache modenesi, adolescenza Anni 50, dove cominciava il West, oltre la via Emilia. Guccini, grande acrobata della malinconia come il Keaton del suo ultimo disco, non ha paura di essere «moralista». Come De Gregori, come Moretti? «Ahimè, io sono più vecchio. Ma abbiamo in comune, mi pare, un bisogno di moralità, un desiderio di sobrietà: non compromettersi, non calare le brache per un falso successo in una società sempre più sbracata». Luciano Genta

Luoghi citati: America, Emilia, Malo, Modena