Di Pisa di G. Z.

Di Pisa Di Pisa Al lavoro ma ignorato PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Por Alberto Di Pisa, già componente il gruppo antimafia, quella del ritorno al lavoro è stata ieri la giornata di un giudice clandestino. Un arrivo solitario, una mattinata da recluso, la fuga finale senza un solo collega che lo salutasse, lo andasse a trovare, accennasse a stringergli la mano. Se mai c'è stata prova della «incompatibilità» fra un magistrato e il suo ambiente, la giornata che Alberto Di Pisa ha trascorso ieri ne racchiude ogni possibile risvolto. Sveglia alle sei, alle sette una scorta della Guardia di Finanza sotto casa: alle 7,20 già in tribunale deserto, nell'assenza di colleghi e cancellieri. «Il giudice non parla, non vuole vedere nessuno». Dinanzi alla porta sbarrata, poco più tardi due finanzieri fanno rispettare la consegna dell'isolamento. Lungo i corridoi cameramen di Rai e tv private vengono fatti allontanare oltre le porte blindate. In tutta la Procura, un senso di gelo. Passa un sostituto, uno fra i più mattinieri: è la dottoressa Agata Consoli. Sa che Di Pisa è tornato al lavoro, è andata a salutarlo? «Noooo! Non lo saluto e non lo saluterò». Si apre uno spiraglio nell'ufficio accanto, che separa la stanza di Di Pisa da quella dell'acerrimo' avversario di questi mesi, Giuseppe Ayala. Ne esce il giudice che dovrebbe fare da cuscinetto, Giovanni Sirchia. E lui, almeno, si è fatto vedere da Di Pisa? La risposta, a trascriverla, suonerebbe all'incirca «No però beh scusate ho da fare». Saranno le dieci quando di colpo la porta del presunto «Corvo» si spalanca. Di Pisa esce con un'espressione stranissima: ha le labbra atteggiate all'espressione di chi fischietta, ma senza alcun suono. Indossa una giacca scura, il giudice, ha i capelli acconciati di fresco. Una corsa di venti metri, fino alla porta blindata del procuratore capo, avvolto da una muta di cronisti all'implacabile caccia di una frase, un rigo appena. Nulla da fare. Pochi minuti dal procuratore Curti Giardina, un rientro nell'identico tumulto poi di nuovo quella porta a fare da barriera. Un giornalista ha un'idea: proviamo a telefonargli. Dall'altro capo del filo risponde una voce che sembra arrivare d'oltretomba: «Come sto? E come vuole che stia... sono in ufficio perché ho esaurito le ferie e i permessi. Datemi il tempo di guardarmi attorno, il tempo di capire cos'è successo in questi mesi. Certo, non mi occuperò più di inchieste sulla mafia». Questo è sicuro: sulla scrivania, dopo la decisione con cui il procuratore ha deciso di sollevarlo da qualsiasi indagine importante, il dottor Di Pisa ha trovato solo un fascicolo che riguarda un furto d'energia subito dall'Enel. Poi un'altra frase sibillina («Questa vicenda sta sviluppando molti meccanismi strani...») prima del «clic» che chiude definitivamente le comunicazioni. Fino all'ora di pranzo non accade praticamente nulla. Un avvocato, ignaro, bussa alla porta del giudice dopo aver faticosamente convinto i due finanzieri. Forse arriva da fuori: certo, esce dall'ufficio dopo un paio di minuti con l'aria irritata. Alle 13,30 ultimo atto della grande fuga: la porta si riapre, l'espressione del dottor Di Pisa è sempre la stessa, quella della bocca che vorrebbe fischiettare. Nuova rincorsa, il saluto di un avvocato, una risposta («Come vede sono in compagnia...») che vorrebbe essere scherzosa ma risulta angosciata, fino allo stratagemma decisivo. Entra ancora nell'ufficio del procuratore capo, il giudice. Poi infila rapidissimo un ascensore di servizio e si precipita fino al piano terra, dove attraversa a razzo l'androne, si infila nell'«Alfetta» blindata e via, a casa, [g. z.]

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