L' Ungheria ripudia il comunismo di Guido Rampoldi
L' Ungheria ripudia il comunismo I riformatori stravincono il Congresso, forse una scissione dei kadariani L' Ungheria ripudia il comunismo Dissolto il pc, nasce il partito socialista BUDAPEST DAL NOSTRO INVIATO Dopo oltre mezzo secolo di vita, il partito comunista ungherese, posu, è morto alle 20,30 di ieri sera, quando 1005 dei 1202 delegati presenti al Congresso straordinario ne hanno approvato la rifondazione sotto altro nome e sotto bandiere diverse e multicolori. Col vecchio posu è morto anche il monolitismo comunista: i 159 voti contrari e i 38 astenuti indicano che, in prospettiva, potrebbe consumarsi la prima scissione dell'Europa orientale. La vecchia guardia kadarista non ha potuto ingoiare una svolta imposta in termini umilianti e sarebbe orientata ad appropriarsi della continuità e del nome del partito defunto. Così, in un ottobre storico come quello del '56, l'Ungheria ha visto i funerali del partito-Stato che la governava dal '48. Funerali solenni ed euforici, scanditi dal lungo applauso col quale il Congresso ha salutato la simultanea nascita del partito socialista ungherese, psu, che abroga la «o» di «operaio», ripudia l'arsenale ideologico della tradizione orientale, dall'identificazione del partito con lo Stato al «centralismo democratico», e marcia verso libere elezioni. Ha vinto l'ala radicale, che ha imposto il nuovo nome, la rottura con la storia del comunismo ungherese, il nuovo tesseramento, vincolato all'esplicita adesione ad una piattaforma decisamente «occidentale». Rezso Nyers l'ha presentato come «un passo storico per ogni socialista, un compromesso accettabile per tutti», anche per guadagnare il consenso dei più moderati, di cui ha toccato le corde emotive dicendo: «Il posu è vicino al mio cuore». Ma poi: «Tra il vecchio e il nuovo, scelgo il nuovo». E ha tracciato l'identità europea del partito socialista ungherese, così come lui, che probabilmente ne sarà il presidente, l'immagina: un partito uscito dallo stalinismo che tuttavia «non diventerà un partito borghese», «alleato dei partiti comunisti orientati alle riforme», ma deciso a creare un legame con le socialdemocrazie e l'internazionale socialista. Infine, lo schiaffo ai kadaristi e al loro capo, Janos Berecz, autore di un forsennato libello contro la rivoluzione nazionale del '56, «contro rivoluzione con le armi e con la penna». Berecz, ha detto Nyers, «deve accettare questo nuovo partito ed entrarci, se vuole, con la penna, non con le armi»; Ma la vecchia guardia kadarista, incluso l'ex primo segretario Karoly Grosz, dopo un vano tentativo di patteggiamento, ha respinto l'out-out. Così lo strappo di Budapest è diventato di fatto il primo scisma nella storia del comunismo reale. Maturato più nei corridoi che in aula, dove lo scontro politico è stato confuso. Rivelandosi però un conflitto tra i delegati giovani e gli anziani e tra ceti sociali. Con i radicali erano soprattutto i «colletti bianchi» — tecnocrazia e ceti intellettuali — che secondo stime non ufficiali rappresentavano quasi l'80 per cento dei delegati. Ostile ai radicali era invece una minoranza eterogenea, in apparenza composta da quadri locali del partito, poliziotti, operai. Erano soprattutto coloro che parlavano in nome dei «colletti blu», in particolare dei non qualificati, a tradire lo sgomento per quei partito che intendeva abolire dal nome l'aggettivo «operaio» e si preparava a gestire una dura ristrutturazione industriale. Ecco il compagno Bihari: «Belli questi slogan alle mie spalle, dietro il palco: democrazia, socialismo, progresso. Ma anche con tutto questo il povero resterà povero, e in futuro forse starà anche peggio». Un altro: «Parlo a nome degli operai: la riforma del partito non può essere contro di loro, ma per loro. La classe operaia ha paura che alla fine il peso della modernizzazione cadrà sulle sue spalle». Se questa parte della platea insisteva sui problemi economici e guardava con molto sospetto al nuovo vocabolario del partito, gli altri — in genere tra i 30 e i 45 anni, con giacca e cravatta — facevano riferimento soprattutto alle elezioni di primavera. Diceva un delegato dell'ala radicale che ha raccolto l'applauso più lungo: «Dobbiamo far capire chiaramente alla gente che non stiamo inventando giochi di prestigio per restare al potere. Perché se non diventiamo davvero un partito nuovo, un partito di centro-sinistra, allora per noi sarà la catastrofe». Gli ortodossi, invece, sembravano considerare l'azzardo dello smantellamento del regime e delle libere elezioni come un passo fatale: «Non vorrei che in futuro i miei figli dovessero sentirsi in pericolo perché il loro padre è un comunista», diceva un delegato dai baffi staliniani. Ma la maggioranza si è convinta che proprio la svolta radicale avrebbe garantito al partito la possibilità di uscire quasi indenne dalle elezioni. E probabilmente è stata decisiva la certezza che Imre Pozsgay, il leader dei radicali, è l'unico in grado di garantire un patto di governo con l'opposizione. Un accordo che anzi sarebbe già stato sottoscritto, sulle basi di uno scambio che, si afferma, funzionerebbe così: Pozsgay presidente della Repubblica, un rappresentante dell'opposizione presidente del Consiglio. Guido Rampoldi
Persone citate: Bihari, Imre Pozsgay, Janos Berecz, Karoly Grosz, Nyers, Pozsgay, Rezso Nyers
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