Il Buddha Vivente di Enrico Benedetto

Il Buddha Vivente Il Buddha Vivente Dentro il cappio del Grande Fratello BUDDHA vivente, monarca assoluto, signore dell'ultima teocrazia rimasta al mondo: il Tibet. Tenzin Gyatzo, XIV Dalai Lama, aveva già tutto a quattro anni, nel '39, ma l'ha perso. Oggi il Paese che celebrò fastosamente la sua divina reincarnazione vive occupato dagli atei cinesi, e ai monaci — perduta la «reggia» Norbulingka — resta solo un pallido governo in esilio. Così la «celeste vita» di Tenzin appare sempre più una lunga, disperata corsa a ritroso per fermare il tempo o cambiare la storia. Negli anni ha alternato collaborazionismo, nostalgia dinastica, realpolitik, ma il suo destino — e quello dei sette milioni di tibetani — rimane avvolto dal mistero. Il Nobel lo raggiunge quando forse non l'aspettava più: più che i suoi meriti indiscutibili, questa volta forse ha giocato l'«effetto Tienanmen», una grande solidarietà internazionale per le vittime, tutte, della repressione cinese. Il futuro Dalai Lama (Oceano di Virtù) nasce in una famiglia contadina, a Takter. Il villaggio è remoto eppure due anni più tardi lo raggiunge una folta delegazione di monaci e dignitari. Spinti dagli oracoli, cercano qui il successore di Thupten Gyatso, ultimo capo spirituale tibetano. Al piccolo Tenzin vendono posti alcuni indovinelli e li risolve. Sarà lui a reggere le sorti del Paese. Ancora pochi mesi, e il bimbo viene trasferito con tutti gli onori a Lhasa. Risiederà noi sontuoso monastero di Potala. Il suo Tibet, fra le due guerre, era un Paese inaccessibile. «Tra noi — raccontò — vivevano in tutto 6 stranieri. I monaci costituivano un decimo della popolazione. Non ricordo una sola fabbrica». I cinesi sono il Grande Fratello. Nei secoli hanno invaso ripetutamente gli altipiani del Tibet (l'ultima volta, un trent'anni addietro). La Cina uscita dalla Grande Marcia sembra più minacciosa che mai. L'Impero, almeno, era buddhista, Mao invece liquida il caso Tibet: «E' solo feudalesimo». Le truppe di Pechino entrano a Lhasa nell'ottobre '50. Il Dalai Lama ha 15 anni. Rifiuta d'uscire dal suo monastero ma è in ostaggio. La Cina annuncia con grande enfasi uno «statuto speciale» in 16 punti. A malincuore, Tenzin Gyatzo accetta. E il «Grande Timoniere», incontrandolo nel '55, gli toglie ogni speranza: «Il lamaismo serve a tenere in schiavitù i poveri, bisogna seppellirlo. Voi monaci propagate veleni e basta». Il quattordicesimo BuddUa é ventenne. Oltre alla teologia ha studiato musica, danza, belle arti. Conosce il sanscrito, medita in preghiera fino a tarda notte. Dietro gli spessi occhiali da miope, uno sguardo fermo e dolce. Nulla può contro l'industrializzazione forzata del Paese, le razzie nei monasteri, i privilegi ai coloni cinesi. Cova il malcontento, già esploso in mini-rivolte etniche. Nel marzo '59 la situazione precipita. Mao vorrebbe trasferire a Pechino il Dalai Lama per avere mano libera, ma i sudditi ne circondano il palazzo a migliaia. Il 10 l'artiglieria cinese apre il fuoco contro la residenza del Buddha Vivente. Tenzin Gyatzo aveva preso il largo la notte precedente, fucile a tracolla, divisa militare. Per 15 giorni vaga nel Paese, ospite di poveri contadini, quindi riesce a raggiungere l'India. I militari cinesi fanno, pare, almeno ventimila morti, L'Occidente solidarizza con il Tibet, tuttavia quasi nessuno riconosce il governo lamaista in esilio. Per scalzare Tenzin, Mao si assicura i favori del secondo in graduatoria, il Panchem Lama, operazione astuta quanto vana: tutti continuano a venerare l'«Oceano di Virtù». Lui trasforma l'indiana Dharmsala, ove lo raggiungono molti dei 60 mila monaci fuggiti, in una «piccola Lhasa». La diaspora si allarga rapidamente a a Europa e Nord America. Il Dalai Lama fa ormai l'ambasciatore itinerante di se stesso. Parla all'Onu, incontra papi e sovrani. Dopo Gandhi resta l'ultimo apostolo non violento. Pechino lo teme: alterna le blandizie a critiche astiose rinegoziando in continuazione un ritorno promesso e sempre disatteso. Tenzin Gyatzo media. Il Tibet potrebbe «diventare autonomo pur conservando il regime marxista». Basta che la Cina abbia le redini in politica estera. «Sarebbe un'indipendenza camuffata» replica Pechino. Alcuni mesi fa gli ultimi scontri, i monaci arrestati, le espulsioni degli stranieri, testi scomodi per un massacro. «Voglio portare il Tibet a Ginevra», annuncia Tenzin Gyatzo, ma poco dopo giungono le stragi sulla Tienanmen. La violenza cinese riscopre il «fronte interno»: le vittime non sono più i lama, la brutalità è la stessa. Enrico Benedetto