IL VIRUS SENZA FINE CHE CORRODE NAPOLI di Felice Piemontese
IL VIRUS SENZA FINE CHE CORRODE NAPOLI IL VIRUS SENZA FINE CHE CORRODE NAPOLI EPIDEMIA di Felice Piemontese è una metafora della degenerazione di una città (nel caso specifico Napoli, riconoscibile ma mai citata), ma anche di un Paese e, perfino, di un tempo (il tempo in cui viviamo). Agente della degenerazione è uno strano (terribile) virus che improvvisamente si diffonde nella grandiosa (disfatta) metropoli, uccidendo prima gli animali (topi, cani e gatti delle cui carcasse, ben presto, si tappezzano le piazze e le strade) e poi gli uomini (che sempre più numerosi affollano gli ospedali troppo piccoli per accoglierli). Scuole, uffici e negozi vengono chiusi: per contro si moltiplicano le bancarelle e le vendite all'aperto, che offrono ogni genere di merce, soprat¬ tutto di origine illecita, fino allora oggetto di traffico clandestino. Infine viene chiusa la stessa città, sbarrando con filo spinato i caselli delle autostrade e ogni altro varco di accesso alle vie nazionali mentre una serie di motovedette, appostate appena al largo, impediscono la fuga via mare. I cittadini sono prigionieri di una città diventata carcere: ma prima ancora che della malatttia sono prigionieri di se stessi (dei loro comportamenti e modi di pensare), della loro natura cui non è poi tanto strano che tocchi una sorte tanto amara. E i cittadini sembrano saperlo: infatti a fuggire (a tentare di fuggire) sono in pochi, perlopiù gli stranieri mentre gli indigeni si adattano (pur rifiutandola} alla situazione, sapendo di non poter fuggire da se stessi. Intanto passano le settimane, tra speranze e de¬ lusioni; l'Istituto per gli Alti Studi Medici, diretto da un luminare dal gran nome internazionale, è sempre sul punto di trovare l'antidoto al virus mortale; ancora qualche giorno e l'epidemia sarà domata; in realtà passano i giorni, passano altre settimane, i mesi e poi altri mesi e la soluzione rimane lontana, anzi sale il timore (e poi la certezza) che la soluzione è che non vi è soluzione, essendo il virus il prodotto storico della città, inestirpabile, come il suo (glorioso) passato. Enormi insetti Sempre più numerosi sono i corpi morti che ingombrano le strade mentre anche gli interni delle case, fino allora ricovero, se pur illusorio, dalla veemenza della malattia, vengono attac¬ cate dal morbo: «enormi insetti, orribili escono dalla tazza del cesso... invadono tutta la casa... cominciano ad arrivare anche qui, dove mi sono rifugiato sprangando la porta... non so come fanno a entrare... s'infilano dappertutto., anche tra le mie carte... dappertutto...». Sono le ultime parole con cui l'autore di Epidemia mette fine al terribile incubo. Un incubo, una metafora, la cronaca di una catastrofe possibile? Comunque una elaborazione narrativa carica di dolore e di rimprovero.. Quasi un atto di accusa contro una realtà (una città) colpevole, non estranea al destino che l'ha colpita. Ma Piemontese sa che con le recriminazioni, le denunce e i pianti non si fa letteratura; che la letteratura soffre dell'eccessiva vicinanza a obiettivi moralistici e di sdegno. Così decide di prendere le distanze. Si allontana da una ma¬ teria tanto calda e bagnata, adottando un linguaggio freddo, che incide come una lama e sottrae quella materia a ogni facile emotività, tingendola di colori surreali che ricordano il Camus de «La peste» più che il Cassola millenarista. Certo la metafora (se metafora è) è ancora troppo esplicita e ci si aspetterebbe (augurerebbe) un grado più avanzato di estraneazione: tuttavia, non possiamo non apprezzare il coraggio con cui Piemontese affronta una storia che per la sua turgida pienezza sembra irraccontabile e che lui sviluppa con una consapevolezza stilistica sempre (o quasi sempre) vigile e attenta. Angelo Guglielmi Felice Piemontese Epidemia Tullio Pironti pp. 148, L. 18.000
Persone citate: Angelo Guglielmi, Camus, Cassola, Felice Piemontese, Tullio Pironti
Luoghi citati: Napoli
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