Il sogno italiano d'un partito contadino

Il sogno italiano d'un partito contadino Il centenario di Alessandro Scotti: un leader e la sua opera che aiuta a comprendere vicende d'oggi Il sogno italiano d'un partito contadino In maniche di camicia contro i dirigenti corrotti DN'immagine particolarmente calzante per descrivere il tumulto di eventi politici che incalza i Paesi dell'Est europeo è quella suggerita dall'eruzione di un vulcano spento da secoli: prima che la lava possa fuoruscire libera dal cratere, deve saltare un «tappo» di detriti, un gigantesco cono di roccia che si sfila lentamente tra apocalittici boati e bagliori d'incendio. Quel «tappo» costituisce per lo storico una fonte preziosa di conoscenza; come la «carota» estratta dal geologo per sondare gli strati della superficie terrestre, esso racchiude le tracce del passato, conservate pressoché intatte. E' come se lo stalinismo fosse stato una sorta di frigorifero della storia, preservando «oggetti» altrimenti destinati al deterioramento o alla sparizione. Nelle convulse trattative che, in Polonia, hanno preceduto il varo del governo Mazowiecki, ad esempio, è emersa per un istante la possibilità di affidare l'incarico di formare la coalizione ministeriale a Kozakiewicz, il leader del Partito dei contadini. In Europa occidentale questa denominazione suscita soltanto ricordi sbiaditi. Non così all'Est. Tra le due guerre mondiali, i partiti contadini furono protagonisti assoluti della vita politica di quei Paesi. Il caso più emblematico fu quello della Bulgaria, dove il leader contadinista Stamboliski avviò, tra il 1919 e il 1923, un ardito esperimento di democrazia rurale prima di essere barbaramente assassinato. In Romania, il Partito Nationaltaranist andò al potere nel 1928 nelle prime ed ultime elezioni libere svoltesi in quel tormentato Paese, dando vita all'unico governo parlamentare della storia romena. Anche in Polonia e in Cecoslovacchia i contadinisti assunsero a più riprese responsabilità di governo. In Croazia, il locale Partito contadino riuscì addirittura a raggruppare un'intera nazionalità, diventando l'organizzazione politica maggioritaria di tutti i croati, fossero contadini, artigiani, ceti medi o intellettuali. Quella straordinaria mobilitazione politica contadina appare oggi quasi un frutto fuori stagione, maturato in uno scenario segnato dalla definitiva vittoria della scelta industrialistica, con la triade «vapore, acciaio, carbone» assunta come unico e assoluto riferimento di progresso e di civiltà. Negli anni tra le due guerre mondiali l'industrializzazione alimentò un modello sociale e culturale egemone in un mondo che le comunicazioni di massa tendevano a uniformare e a unificale. E i partiti contadini si misurarono di fatto con un disperato tentativo di fermare il tempo. All'inizio di una urbanizzazione massiccia che, in cinquant'anni, avrebbe punteggiato di megalopoli i due emisferi, i contadinisti lottarono contro le città «parassitarie e corrotte», riven/; h dicando con orgoglio la contrapposizione tra «la città che consuma e la campagna che produce». Se l'industrializzazione era la scelta del futuro, essi si schierarono con il passato incontrando, lungo questo versante, le nostalgie ruraliste della destra fascista che, proprio in Romania, invocava con Codreanu il momento in cui «gli uomini verdi sarebbero usciti dai boschi per distuggere le città corrotte». Ma non erano reazionari. Condividevano tutti il miraggio di una terza vita tra comunismo e capitalismo, ripercorrendo i sentieri battuti dal populismo ottocentesco. Inseguivano un modello di cooperazione integrale come limite sia all'arbitrio della proprietà privata che alla sua drastica abolizione, in un paradosso i cui termini erano, da un lato, uno sguardo volto all'indietro, ricercando l'«armonia» delle tradizioni affondate nel passato, dall'altro una profonda adesione alle forme nuove di democrazia e di partecipazione politica affermatesi nel dopoguerra. La democrazia era stata la loro levatrice; era inscritta nel loro patrimonio genetico. Nel 1929, il Manifesto del Congresso del Bureau International agraire (l'organismo che, dal 1921, raggruppava tutti i partiti contadini) affermava: «I movimenti contadini si battono per i principi della proprietà privata e dei diritti individuali. I contadini domandano diritti uguali per tutte le classi e riforme che migliorino le condizioni di tutta la popolazione e special¬ mente quelle dei contadini e degli operai dell'industria». Avevano «scoperto» la politica con la caduta dei regimi autocratici e la conquista del suffragio universale; la democrazia diventava così condizione elementare per la loro stessa sopravvivenza. Non potevano farne a meno. Stretti nella duplice morsa dello stalinismo e del nazismo, furono come pesci senza l'acqua in cui nuotale. Morirono, tutti, dopo un'agonia più o meno lunga, negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale. Anche in Italia, anzi, sarebbe meglio dire in Piemonte, il contadinismo ebbe un suo partito politico. Tra i suoi fondatori, nel 1921, ci fu Alessandro Scotti, del quale, quest'anno, ricorre il centenario della nascita. Scotti, era nato infatti il 20 dicembre 1839 a Montegrosso d'Asti. Maestro elementare, ufficiale degli alpini durante la guerra 1915-1918, organizzatore delle «squadre rurali» nella Resistenza, Scotti fu eletto deputato alla Costituente nel 1946 e, successivamente, anche nelle prime due legislature dell'Italia repubblicana (19481953 e 1953-1958). Nelle campagne astigiane, dove era concentrato il suo elettorato, il suo nome è ancora oggi carico di sapori evocativi. Il Partito dei contadini non divenne mai un partito «nazionale». Nel 1946 ottenne 102.373 voti, dei quali ben 70.724 nella circoscrizione Cuneo-Asti-Alessandria. Scotti fu eletto con 20.766 preferenze, delle quali 18.280 ottenute in provincia di Asti! Queste cifre e queste percentuali si ripeterono sostanzialmente uguali anche nel 1948 e nel 1953. La geografia dei Comuni conquistati dalle liste contadiniste, quella del loro radicamento elettorale, era segnata dal profilo delle colline astigiane: quando si abbandonavano i prati del fondo valle per risalire le nitide geometrie de¬ scritte dalle viti disposte in filari ordinati, allora cominciava il mondo dei contadinisti, un paesaggio segnato dalla fatica dell'uomo, con l'area delia vite che coincideva perfettamente con l'area dei loro successi elettorali. In quello scenario era nato il Partito dei contadini, fondato — nel 1921 — dal fratello di Alessandro, Giacomo. Anche Giacomo fu tre volte deputato: nel 1919 e nel 1921, eletto nelle liste del Partito popolare come indipendente, nel 1924, nelle ultime elezioni libere prima del fascismo, quando fu uno dei tre deputati contadinisti del Piemonte. Giacomo, in occasione dell'inaugurazione della Casa del Contadino di Montaldo Scarampi, il 1° maggio 1922, si incontrò con delegazioni dei Partiti contadini dell'Est europeo (romeni, croati, sloveni, ucraini), compreso il «dittatore» bulgaro Stamboliski. Furono per lui esempi importanti. Da deputato, i suoi interventi fecero risuonare a Montecitorio i temi più consueti della fierezza contadina. Scagliandosi contro la corruzione delle classi dirigenti («Ho detto che è tempo di cambiare campo di esperimento, perché, se andate nelle case dei grandi signori, degli arricchiti di guerra, troverete oro, brillanti, che valgono molto di più della casa e della terra del povero contadino... Avete imposto le tessere; ma nessuno di voi, non un deputato, non un ministro, sta con la tessera. Vedo che quando andate in albergo mangiate fino a sazietà») egli si autodefiniva ostentatamente «il migliore falciatore della sua valle». Come il leader contadinista polacco, Witos, che era stato anche capo del governo: «Un prato disseminato di fiori, le spighe ondeggianti del grano, il canto dell'allodola o il battito del becco delle cicogne non mi commuovono, come il latrato di un cane o il gracchiare di una cornacchia non mi irritano — tuonava vestito da contadino, stivali alti e camicia bianca senza cravatta —. Ma io ho sempre arato la mia terra ccn le mie proprie mani fino all'ultima porca, perfino quando ho ricoperto la carica di primo ministro: temevo che durante la mia assenza i vicini potessero disinteressarsi di un terreno che io avevo attentamente lavorato e sciupare così il risultato di anni di lavoro». Alessandro agì in un contesto drasticamente diverso. Nel 1948 quando fu eletto nel primo Parlamento repubblicano, il 40% degli italiani era occupato in agricoltura; nel 1958, quando smise di fare il deputato, questa percentuale si era ridotta al 21 %. Se la lotta per fermare il tempo condotta da Giacomo si inabissò nel vortice della dittatura fascista, quella di Alessandro si arrestò alle soglie della «grande trasformazione» che nella seconda metà degli Anni 50 fece dell'Italia una potenza industriale. Nel tumulto del secondo dopoguerra, nel corso stesso del boom, Alessandro si aggrappò agli stessi valori di Giacomo, esaltando nel contadino «la refrattarietà al demone del maggior guadagno», il rispetto delle gerarchie, il culto della tradizione e della stabilità sociale, il sentimento della proprietà, della famiglia, della religione, l'amore per il risparmio «sacrificio del presente per l'avvenire», il tenace attaccamento alla terra e al paese nativo «prima radice dell'attacamento alla patria», «la fierezza della classe nostra che non conosce la corruzione e ha ancora il sangue puro che martella nei polsi». Scelse come bersagli polemici dei suoi interventi parlamentari il consumismo e la liberalizzazione dei costumi: «I giovani che prima ballavano sotto gli occhi dei genitori, dei parenti, delle famiglie — e il ballo era una cosa morale — se ne vanno in città, vanno a ballare nelle sale da ballo, nei dancings, e Dio voglia non altrove — affermò in aula il 4 ottobre 1951 —. Si intossicano l'anima, si illudono, prendono il vizio cittadino e ritornano a casa, e al lunedì li trovate nelle campagne svogliati, che sbadigliano trasognati; e non hanno più voglia di vangare profondo». Fece in un tempo a vedere le sue campagne spopolarsi, i vigneti bruttati da goffe ciminiere, l'incolto dilagare nei prati, il gerbido ai bordi delle colline. Morì il 19 maggio 1974, a 84 anni. Pochi anni dopo, altri «uomini verdi» — in un ambito opposto a quello vagheggiato da Codreanu — uscirono dai boschi, riplasmando la fierezza contadina di Scotti nell'onda impetuosa del movimento ecologista. Giovanni De Luna Mondovì, 1948. Alessandro Scotti

Persone citate: Alessandro Scotti, Giovanni De Luna, Kozakiewicz, Mazowiecki