Heidegger: il viandante e la sua ombra

Heidegger: il viandante e la sua ombra Cent'anni fa nasceva a Messkirch, in Germania, uno dei più grandi e discussi filosofi del Novecento Heidegger: il viandante e la sua ombra Nuove strade per la filosofia. E un macigno: il nazismo I ENT'ANNI fa, il 26 setI ' tembre 1889 nasceva a I Messkirch, nella Germani i nia meridionale, Martin A^J Heidegger, uno dei massimi filosofi del Novecento. Eppure lui diceva d'aver passato tutta la vita a capire cosa fosse la filosofia. Scrissi ad Hermann Heidegger, figlio del filosofo, più di un anno fa, in un periodo in cui la figura ed il pensiero di suo padre erano al centro di una delle più dure polemiche filosofiche degli ultimi tempi. A scatenarla fl libro del cileno Victor Farias (allievo dello stesso Heidegger) intitolato «Heidegger e il nazismo». Che Heidegger fosse iscritto al partito nazista e che nel nazismo avesse «creduto» negli anni più drammatici della storia tedesca era risaputo. Ma che Heidegger fosse un apostolo dell'antisemitismo o che, detto in ter- mini pseudofilosofici, l'essere di Heideggger fosse un essere razzista, fu invece «scoperta» (grottesca) di Farias. Certamente l'adesione di Heidegger al nazismo non fu un semplice incidente di percorso! Innanzitutto perché durante tutta la sua vita non corresse mai la propria posizione politica. Nel 1933 Heidegger fu nominato Rettore all'Università di Friburgo e aderì al partito nazionalsocialista. Pronunciò la prolusione sull'Autoaffermazione dell'Università Tedesca e l'anno successivo si dimise dal Rettorato per dissensi col regime. Probabilmente Heidegger non credeva tanto nel partito, quanto nel movimento di massa, nel Volk (che in tedesco significa popolo, ma anche tradizioni, lingua, religioni, radici), negli studenti, espressione più della confusione, del malessere, della miseria, della disperazione, delle illusioni della Germania di quegli anni che del nazionalsocialismo. Dopo le dimissioni continuò l'attività didattica sorvegliato da uomini del partito. Molti suoi scritti non furono recensiti. Nel 1944 fu assegnato alle trincee sul Reno. In seguito, almeno pubblicamente, non fece mai una vera autocritica di quella scelta politica e mantenne il silenzio. A parte due interviste, una rila¬ sciata al settimanale Der Spiegel nel '66, pubblicata solo dopo la sua morte; una del '69 alla rivista francese L'Express, dove disse: «Il pensiero è sempre un po' solitudine. Appena lo si impegna può deviare. Ne so qualcosa io. L'ho imparato nel '33 all'epoca del mio Rettorato, in un momento tragico della storia tedesca. Mi sono sbagliato. Un filosofo impegnato è ancora an filosofo? Lo stesso filosofo cosa ne sa della maniera in cui la filosofia "agisce siigli uomini e sulla storia? La filosofia non si lascia organizzare». Diceva di riporre le sue speranze «più nel socialismo che j nell'americanismo», guardava con simpatia a quella gioventù (quella del '68) che si «appassionava a nuovi problemi. Mi piace molto, è lei che è interessante». Tutte cose risapute. Ma «quando non si può attaccare il pensiero si attacca il pensatore» disse Paul Valéry e così fece Farias partito lancia in resta e deciso a far giustizia una volta per tutte del nazista di Messkirch. All'epoca della polemica sull'«Affaire Heidegger», avevo terminato da poco uno studio dedicato al suo pensiero, in particolare al tema del «negativo» e della poesia. Polverone Farias a parte, il problema del «negativo» è anche legato alla questione del nazismo. E il nazismo è anche una questione di «negativo». Si tratta cioè di capire se e fino a che punto l'impegno politico di Heidegger sia fondato nel suo pensiero, di capire come si articolino in Heidegger filosofia e scelta politica. Non sono cose di poco conto. Specie perché Heidegger fu il maestro dell'interrogazione senza tregua, il pensatore dal domandare implacabile. Più che uno degli ultimi filosofi della tradizione occidentale, Heidegger sembra un Wanderer, il viandante che, dai clerici vaganti del Medioevo a Goethe, dai personaggi delle poesie di Mùller (divenuti popolarissimi coi Lieder di Schubert) a Wotan e Kundry, gli eroi della mitologia cari a Wagner, allo Zarathustra di Nietzsche, è figura essenziale dello spirito tedesco. Il viandante è colui che è sempre altrove, esposto a possibilità sempre nuove, fuori da strade prestabilite. Il Wanderer è colui che tenta tutte le vie. La filosofia di Heidegger non è un sistema compiuto. I suoi scritti, come egli stesso ricordava, sono appunto solo vie, sentieri su cui indugiare, cammini che di colpo si interrompono nel fitto, strade che portano in radure aperte, viottoli che percorrendoli sviano. Su una di queste strade Heidegger incontrò il nazismo. Anche se il pensiero teoretico spesso si ritaglia spazi autonomi, era impossibile pensare il «negativo» scansando un'immagine che del «negativo» è il simbolo supremo: l'orrore nazista. Così scrissi al figlio. Gli chiesi che ricordo conservava del padre, specie durante il periodo della guerra. Gli chiesi perché a suo giudizio un pensiero così astratto, poco accessibile per chi non abbia una certa frequentazione filosofica, avesse avuto così grande fortuna, for- mando intere generazioni. La sua risposta (pubblicata a parte), un ricordo dell'uomo e del filosofo, si chiude con un'osservazione interessante, nella sua disarmante semplicità: Martin Heidegger non ha avuto un solo allievo nazista. Però mentre ad Hermann Heidegger l'adesione del padre al nazismo sembra un momento incidentale, di ben altra opinione è Luigi Pareyson. Pareyson, un maestro del pensiero contemporaneo, fra i primi interpreti italiani, dell'esistenzialismo, conferma quanto disse in un'intervista a Mauro Anselmo pubblicata su Stampa Sera nel marzo scorso. «Heidegger fu nazista, certamente. E questo è stato un grave errore, anzi una colpa in un uomo come lui. Ciascuno di noi è sempre un miscuglio di cose, ha in sé varie personalità difficilmente componibili. C'è un elemento demoniaco in Heidegger, un mister Hyde latente, ma sempre pronto ad esplodere. Per quanto riguarda il suo pensiero vi sono infinite cose da approfondire. Heidegger non è stato tutto capito. La sua opera è un classico dove ogni frase è suscettibile di maggior approfondimento». Gianni Vattimo, il filosofo del «pensiero debole» e fra i più noti esperti heideggeriani, ritiene che non ci siano elementi nel pensiero di Heidegger che necessariamente concludano nel nazismo. «Anche il figlio nella sua lettera riconosce che c'è stato un momento nazista nella biografia intellettuale del padre. Non sono sicuro che Heidegger si sia sconvertito subito dopo il Rettorato, ma mi interessa relativamente il giudizio etico-politico su Heidegger come uomo. Piuttosto bisogna fare un'edizione critica dell'opera di Heidegger anche se questo non riguarda tanto il nazismo direttamente. Ci sono spunti per una nuova ontologia non più legata alla metafisica, ma ci sono anche spunti che rimandano all'ontologia tradizionale. Allora se vogliamo essere radicali possiamo dire che Heidegger, autointerpretandosi male, abbia compiuto quella scelta politica. L'errore nazista è stato un autofraintendimento dello stesso Heidegger e conseguenza di un pensiero che pensa l'essere come originario e non come dissolventesi. Ma proprio essendo filosoficamente heideggeriani, seguendo la via della critica alla metafisica, intendendo l'essere nei termini di indebolimento e dissolvenza non si può essere nazisti». «Sono d'accordo con Pareyson e Vattimo: è la filosofia ad essere interessante» dice Hans Georg Gadamer, uno degli ultimi grandi della filosofia europea, il più autorevole interprete e continuatore della filosofia di Heidegger. Prosegue: «Trovare dei valori nella gente del '33 fu un'illusione terribile e Heidegger non vide in che razza di uomini ripose i suoi ideali. Però è una questione troppo delicata per venir affrontata in un'intervista. Perché la gente pensa che un grande pensatore debba avere una giusta percezione della realtà sociale? Ho scritto un saggio con questo titolo. Presto verrà pub¬ blicato. Lì sarò più chiaro». Secondo Sergio Givone, il filosofo dell'ermeneutica e del «pensiero tragico», interpretare il nazismo di Heidegger come un semplice incidente di percorso o liquidare questa filosofia con l'etichetta di «irrazionalismo» sono due scappatoie che non convincono. Piuttosto Givone si chiede se questo pensiero non si presti ad una strumentalizzazione ideologica nazista. «Che ci sia questa possibilità lo dimostra il fatto che il pensiero di Heidegger è fondamentalmente aporetico. C'è un'oscillazione tra' l'idea dell'essere come libertà e l'idea dell'essere come destino, dove il destino è interpretato in un senso che dimentica l'altro presupposto: la libertà. Quest'aporia spiega la dimensione più propria del pensiero di Heidegger che definirei decisamente tragica. E' tragico questo ricono- scimento dell'essere come destino e insieme del destino come libertà. Il problema del nazismo: deriva dal fatto che Heidegger non ha tenuto ferma la contraddizione. Dimenticando quello che lui stesso ha detto dell'essere come libertà, si abbandona ad una concezione dell'essere come destino. Di qui certe cadute che non sono solo morali, ma anche teoriche. In Heidegger c'è un'accentuazione del destino come necessità storica, ma anche — il che è paradossale — Heidegger presenta la critica più rigorosa alla nozione di'destino come necessità storica. Quindi si cerchino le origini della caduta morale e politica di Heidegger all'interno del suo stesso pensiero e si troveranno anche gli strumenti concettuali per criticare quella scelta catastrofica». Ancora una volta sentieri nella campagna. Se c'è qualcosa di tragico nella vicenda Heidegger è la sua impossibilità d'agire nella Germania del suo tempo, la sua congenita incapacità d'inserirsi nella realtà politica. Forse anche da qui deriva la sua ambiguità. Oggi gli avversari non possono condannarlo, ma neppure lasciarlo «vivere» a modo suo. Lui resta un viandante, solo con la sua ombra. Paola Campana Da oltre un anno la figura e il pensiero di Martin Heidegger sono al centro di una dura polemica scatenata dalle accuse di razzismo contenute in un libro del filosofo cileno Victor Farias. Il figlio Hermann interviene con una lettera in difesa del padre Gianni Vattimo Martin Heidegger con la moglie nel giugno '68 a Todtnauberg. Nel disegno al centro, il filosofo visto da David Levine. In alto, sopra II titolo, ancora un'immagine «familiare» di Heidegger e, a destra, una manifestazione nazista con Hitler nel "37 Luigi Pareyson

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