Il duca e il genio piccante

Il duca e il genio piccante Sorprende ancora Giulio Romano in mostra a Mantova Il duca e il genio piccante Fu il miglior allievo di Raffaello E MANTOVA RANO fienili e stalle per puledri, immersi nei pascoli dell'isola del Te, circondati da laghi, presso le mura meridionali della città. Poi arrivò un genio e le trasformò nel più bel palazzo europeo del Cinquecento, Pa- • lazzo Te, una piccola corte di ozio e piaceri con peschiere, fruttiere, giardini segreti e alcove. Un luogo d'amore per un giovane signore ambizioso, Federico II Gonzaga, figlio di Isabella d'Este. L'artefice era Giulio Romano, architetto e pittore, il miglior allievo di Raffaello. La storia la racconta il Vasari nel Cinquecento e la confermano documenti del tempo riemersi in questi anni in un grande lavoro di scavo delle fonti, che ha accompagnato il restauro di Palazzo Te e di alcuni ambienti di Palazzo ducale, progettati dall'artista. Una grande mostra («Giulio Romano pittore e architetto. L'artista e il suo tempo», sino al 12 novembre) presenta al pubblico i restauri dei palazzi e del loro straordinario apparato decorativo, le testiere di nuovo riempite d'acqua e tutte le tappe dell'intenso percorso di Giulio Romano (Roma 1499 circa Mantova 1546). In particolare in Palazzo Te si possono vedere gli affreschi e gli stucchi di Sale e Camere, nella Fruttiera secentesca, adibita a luogo di esposizione, 160 disegni e 15 dipinti provenienti da musei di tutto il mondo, del periodo romano (1515-1524) e mantovano (1524-1546), e plastici degli edifici. In Palazzo ducale, la Sala di Troia costruita e decorata da Giulio Romano, arazzi, la collezione archeologica dei Gonzaga e numerosi dipinti della scuola di Giulio. L'itinerario potrebbe proseguire per la città (chiesa di Sant'Andrea, Duomo, Porta della Cittadella, Pescherie, portale della Dogana, casa dell'artista) e nei dintorni (basilica di S. Benedetto in Polirone, corte Castiglione, santuario delle Grazie, villa di Quingentole), dove ci sono altre opere. La rassegna ricca e il percorso complicato possono apparire dispersivi, l'allestimento nella Fruttiera un po' freddo. Ma l'impressione è quella di un grosso contributo scientifico (raccolto nell'imponente catalogo Electa, 600 pagine) che apre squarci non solo sull'artista, ma anche sull'epoca e la città: è emersa una quantità di testimonianze nuove, tutte le opere anche di bottega sono state ristudiate, riattribuite o no. L'idea di un'approfondita rivisitazione dell'opera di Giulio Romano, in parallelo ai restauri mantovani, nasce — spiega Manfredo Tafuri, presidente del comitato scientifico internazionale — dopo la mostra romana dell'84 su Raffaello ar- chitetto. «Dopo aver capito la trasgressione di Raffaello, bisognava capire anche quella dell'allievo preferito. Un personaggio chiave nel difficile equilibrio della cultura del primo Cinquecento, architetto, pittore, scenografo, grande disegnatore». Un «regista» capace di architettare con estro e bizzarria palazzi e città, un manager che da botteghe e cantieri mantovani inventa forme che fanno gola all'estero, dove arrivano i suoi progetti e le sue idee: Baviera, Francia, Paesi Bassi. «E' soprattutto un umanista, che proprio dall'antico trae trasgressione, licenza, ironia. Non certo un manierista come l'avevano definito gli storici tedeschi del primo Novecento». A capirlo bene era stato Vasari, che l'aveva conosciuto di persona: vario, ricco e copioso di invenzione e d'artificio», capace di tradurre in disegno un'idea prima ancora che uno «avesse aperto bocca». Aveva cominciato «putto», dodicenne, a Roma nella bottega di Raffaello, attiva per Giulio II. Vi entra forse tra il 1515 e il 16 e subito emerge. Si conquista la stima del maestro («tanto che se li fusse stato figliuolo non più l'avrebbe potuto amare»). Il sodalizio è forte: Raffaello schizza e progetta, Giulio esegue. E' l'unico a poter ritoccare ì dipinti degli allievi. Impara «benissimo a tirare in prospettiva, a misurare gli edifici e a lavorare piante». Di questa stretta collaborazione tra i due, che si protrae sino al 1520, anno della morte di Raffaello, la mostra offre esempi significativi. Li vediamo ad apertura, nella Fruttiera: progetti architettonici per palazzi romani (Villa per il cardinale De Medici a Monte Mario, Villa Turini Laute al Gianicolo, Palazzo Maccarani, Adimari, Salviati, Alberini) che rivelano tendenze per contrasti e assimetrie, per «quella nuova stravagante maniera», che supera gli instabili equilibri raffaelleschi e si svilupperà a Mantova. Bellissimi disegni per dipinti (tavole, tele, affreschi), ispirati a rilievi antichi [Baccante tra due fauni dell'Albertina di Vienna, Venere e amore di Windsor), religiosi (serie dispostoli di Chatsworth, la Vergine con il Bambino e Santa Elisabetta di Windsor, la Madonna col Bambino del Louvre e molti altri). Già considerati copie da Raffaello e restituiti recentemeDte al pittore, dimostrano come le mani di maestro e allievo si confondano sino a creare enigmi. Stessa cosa nei dipinti. Di fronte al San Giovanni battista degli Uffizi di Raffaello, ce n'è un altro quasi uguale: di Giulio?, forse no. Di tutti e due sono la bella e raffinata Giovanna d'Aragona del Louvre, lo strano Ritratto di donna (sembra un ragazzo) di Lugano. Ma solo a Giulio appartengono la famosa Madonna della gatta di Napoli, la inquieta e seminuda Donna allo specchio di Mosca, forse amante di Raffaello, ritratta in un interno di gran lusso. Ed anche quel quadro erotico e licenzioso con Due amanti (Leningrado, Ermitage), che si accarezzano su un letto scomposto, riparato da una tenda di seta verde sotto lo sguardo di una vecchia: fanno pensare all'atmosfera della corte di Federico II Gonzaga, cui il dipinto — non si sa se eseguito a Roma o a Mantova — è appartenuto. C'è insomma già tutto il «genio licenzioso» come lo definisce Gombrich, che diventato il «principe» della bottega romana, dopo la morte di Raffaello, finirà col farsi in un certo senso cacciare. Motivo probabile, I modi: sedici posizioni erotiche con prostitute del tempo disegnate con efficacia, stampate da Marcantonio Raimondi, che per questo finisce nelle prigioni vaticane, e commentati da sonetti di Pietro Aretino. Riprendono l'iconografia delle «Spintriae», antiche monete romane con cui si pagavano i bordelli. Vediamo esposte la prima, l'undicesima posizione nelle incisioni del Raimondi ed alcuni frammenti accanto ad altri disegni lascivi e piccanti. Belli, ma allora nella città pontificia di Clemente VII grande scandalo. Anche Vasari scrive arrabbiato: «Io non so qual fosse più brutto lo spettacolo di Giulio Allocchio, o le parole dell'Aretino agli orecchi». A Mantova, però, nella piccola corte colta c'è un duca che non chiede di meglio che avere un artista di quel calibro, per riempire di invenzioni audaci i suoi futuri palazzi e di assicurarsi così un importante strumento di propaganda dinastica. Utile anche per fare ingelosire gli Estensi ed emulare la madre famosa mecenate, appassionata di «anticaglie». Il gioco è fatto: nel 1524, tramite Baldassarre Castiglione, ambasciatore dei Gonzaga a Roma, Giulio arriva a Mantova e vi si ferma fino alla morte. Riceve grandi onori, un cavallo e molte commissioni. La prima: trasformare le vecchie scuderie al Te in un luogo straordinario di ozio e piacere. Giulio vi lavora instancabilmente dal 1524-25 al 1535: sulle vecchie strutture quattrocentesche crea ventidue ambienti tra sale, camere, camerini, logge ed altro, con l'aiuto di squadre di artigiani. Il capolavoro, oggi brillante come un tempo dopo dieci anni di restauro (a cura dell'Istituto Centrale). Tutta la mitologia classica, gli dèi, gli eroi e i personaggi storici vivono con grandiosità su quelle pareti, mescolati a banchetti, bagni, scene erotiche cinquecentesche, in cui il duca si immedesimava. Volti perversi, diabolici, ghigni beffardi di giganti e satiri contrastano con quei grandi e calmi cavalli dipinti che escono ed entrano dalle quinte, a loro agio nei paesaggi che ricordano le antiche scuderie. E tutto per creare sorpresa e, «fuggire la noia». I colori sono quelli ereditati da Raffaello, arricchiti dal calore e sensualità dei veneti e degli emiliani, la forza e la violenza quelli degli antichi. Ma l'estro e le forme bizzarre sono di Giulio. Vasari li aveva visti e descrit¬ ti, ma oggi ne sappiamo di più come spiega il bel saggio di Konrad Oberhuber. Conosciamo dettagliatamente la cronologia, i ritmi pazzeschi di lavoro (sotto minaccia di pene corporali da parte del duca), i metodi, gli interventi del maestro e quelli dei numerosissimi collaboratori. Alla Fruttiera poi troviamo anche tutti gli splendidi disegni preparatori fatti dall'artista. Maurizia Tazartes ^e avventure di un «regista» capace di architettare con estro e bizzarria palazzi e città, un manager che da botteghe e cantieri mantovani inventa forme che fanno gola all'estero, dove arrivano i suoi progetti e le sue idee: Baviera, Francia, Paesi Bassi. Dipinse Madonne, ma indugiò con Eros Giulio Romano: «Affreschi nella Sala di Psiche» (Mantova, Palazzo Te, particolare) Un altro particolare degli affreschi coi quali Giulio Romno illustrò la Sala di Psiche a Palazzo Te Mantova. Palazzo Ducale, affreschi di Giulio Romano della Sala di Troia (pari.) Mantova. Dèi ed eroi protagonisti nella Sala di Psiche