COCTEAU: PICASSO!

COCTEAU: PICASSO! COCTEAU: PICASSO! Inedito: lo scrittore svela i segreti del cubismo APOLLINARE chiamava Pablo Picasso: l'Uccello del Benigno. Il realismo superiore di Picasso non dovrà mai essere confuso con la geometria armoniosa con cui un altro uccello, Paolo Uccello, pretendeva di rimpiazzare la rappresentazione del mondo visibile. Ecco dunque eliminati alcuni spauracchi drizzati tra Picasso e il pubblico. Liberiamolo anche dal termine cubismo. Lo ha coniato Henri Matisse. «Troppo cubismo!» gridò di fronte a delle tele riportate dal Mezzogiorno da Georges Braque. Raffiguravano gruppi di case a forma di cubi. E' quindi falso paragonare il termine «cubismo» al termine «impressionismo», figlio legittimo di una tela di Claude Monet intitolata «Impressione». Il cubismo ha fatto vedere cubi dove non ce n'erano e, diciamolo, li ha fatti apparire. E non dimentichiamoci, per giustificare la diffidenza di certi animi eletti e il loro timore di essere abbindolati, che lo spirito di mistificazione lo si può trovare assai facilmente all'origine di una scoperta. Le Muse sono persone abituate ai riguardi. Trascuratele e vedrete come si vendicano. Non si abbassano alla collera. Tramutano l'offesa in carcere. Spesso ho visto Picasso che cercava di sfuggire al loro girotondo, da sotto le mani intrecciate. Tentativi simili rendono il suo atteggiamento molto commovente. Tanto varrebbe dire che disegna allora (a modo suo) come tutti. Ritorna subito, con gli occhi bendati, a rimettersi al suo posto nel centro. Forse i primi giorni della sorprendente iniziativa furono giorni di gioco, come i giorni dell'infanzia. Non dipende da nessuno. Poi sono diventati giorni di scuola. Ma Picasso non ha mai insegnato. Non ha mai sezionato le colombe che si alzavano in volo dalle sue maniche. Si è accontentato di dipingere, di acquisire un mestiere impareggiabile e di metterlo al servizio del caso. Picasso è di Malaga. Come tratto caratteristico della sua città mi racconta di aver visto un conducente di tram che cantava e rallentava o accelerava la marcia del veicolo a seconda che la canzone fosse vivace o monotona, e addirittura suonava il campanello in cadenza. Il Malagueno Picasso non abbandona le rotaie; la sua canzone toglie qualsiasi monotonia al viaggio. La gente è sospettosa verso i talenti contrastati. Picasso con la sua immensa fantasia dimostra quanto poco cerchi di piacere. Essa dà al suo minimo gesto una grazia fantasmagorica. Un giorno in cui ero malato, mi mandò un cane ritagliato in un pezzo di cartone, ma piegato così bene che stava sulle zampe, sollevava la coda e muove¬ va la testa. Mi sentii meglio, seduta stante. Da allora confronto il mio cane con il cane fatato di Isotta. Chi disegna farà un'opera vivente, non se pensa alla vita dell'insieme verso cui si organizzano le linee, ma se sente la sua linea in pericolo di morte da un capo all'altro del percorso. Un pericolo da acrobata. Solo a questo prezzo l'insieme vivrà di una vita propria e costituirà un organismo invece di essere la morta rappresentazione di una forma vivente. Da ogni altra abilità verrà fuori soltanto una scimmiottatura. La vita di un quadro è indipendente da quella che esso imita. Un capolavoro come, per esempio, il ritratto della signora Rivière nasce dal connubio delle due forze. Possiamo accettare a questo punto una composizione di linee vive, la cui motivazione cessa di avere il ruolo principale per diventare soltanto il loro pretesto. Non v'è che un passo tra questo stadio e il concepire la sparizione del pretesto. Il fine divenuto mezzo, ecco il colpo di audacia, il più violento della storia della pittura cui abbiamo assistito nel 1912. L'estremo pudore di un artista consisteva nel togliere l'impalcatura intorno a una bottiglia o ad una signora dipinte. Picasso spinge il pudore fino a conside rare signora o bottiglia uguali all'impalcatura che gli permette la sua costruzione. Li fa spa rire a loro volta. Che resta? Un quadro. Il qua dro è soltanto un quadro. E la differenza tra il quadro e l'ac comodamento decorativo che esso rischia di essere, e che la malagrazia ci trova, consiste precisamente in quella vita propria delle forme che lo compongono. Un giorno Picasso volle dipingere un paravento e cercò per i riquadri una semplice guarnizione di arabeschi. Ci rinunciò; il paravento era vivo. Contrariamente a ciò che il pubblico immagina, è quindi molto meno facile abbindolare gli occhi con un quadro illeggibile che con un quadro rappresentativo, perché quest'ultimo, sebbene sia morto in sé, può ricevere dal modello una parvenza di vita mentre un'opera ermetica di Picasso non deve la sua vita a nessun artificio. Un cattivo pittore ricopre un sipario. Non lo solleva su niente. Un vero pittore mano mano che ricopre la tela, la solleva su un teatro in cui l'occhio e la mente sprofondano. Il teatro di Picasso non è un teatro popolare. Prima o poi anche i teatri più inaccessibili aprono le loro porte; non credo che il suo possa socchiuderle. Mai otterrà le lacrime, le bucce d'arancia del loggione. E' forse una posizione unica, da aristocratico. Picasso, tuttavia, chiude raramente i suoi quadri a tre mandate. Gli oggetti, le figure emergono. Talvolta la bilancia esita tra il leggibile e l'illeggibi¬ le, talvolta non funziona. Italiane da cartolina, arlecchini ingenui, giovani cavalieri a cavallo di una sedia, solcati da un sospiro di colori pallidi, incuriosiscono molto, sulla porta, i turisti che non osano andare troppo lontano. Secondo me, l'opera più ermetica di Picasso mi sembrerà sempre la più significativa. Nella collezione della signora Errazuriz c'è una tela, in cui il giovanotto, che vi era raffigurato, seduto in un giardino, sparì tra il 1914 e il 1918, per far posto ad una splendida metafora di linee, di masse e di colori. Là, l'unico al mondo, regna Picasso. Nessuna delle stravaganze che ha suscitato lo eguaglia. Di fronte alle sue gare sulla scala della leggibilità, penso al sonno; più ci si sprofonda, più sembra aggiustare il sogno con materiali sempre meno forniti dalla memoria. Una memoria tanto lontana provoca il loro amalgama da crederlo quasi ottenuto senza ricordi reali. Ricordi che, fossero pure prenatali, rimangono come l'alfabeto con cui il sogno nutre il suo oscuro linguaggio. Ecco dunque uno Spagnolo, munito delle ricette francesi più antiche (Chardin, Poussin, Lenain, Corot) che ha un fascino. Gli oggetti, i volti, lo seguono dove lui vuole. Un occhio nero li divora ed essi, tra l'occhio da cui entrano e la mano da cui escono, subiscono una singolare digestione. Mobili, animali, persone si allacciano come corpi innamorati. Durante questa metamorfosi, non perdono nulla della loro potenza oggettiva. Quando Picasso cambia l'ordine naturale delle cifre, arriva sempre alla stessa somma. Possiede appena il fascino che gli serve. Su che cosa lo sperimenterà? Si pensa a Mida dopo che Bacco gli ha conferito il potere di cambiare in oro tutto quel che tocca. Un albero, una colonna, una statua lo intimidiscono. Non osa. Esita; tocca un frutto. Picasso si cimenta prima con quel che gli sta a portata di mano. Un giornale, un bicchiere, una bottiglia di Anis del Mono, una tovaglia incerata, un foglio di carta da fiori, una pipa, un pacchetto di tabacco, una carta da gioco, una chitarra, la copertina di un romanzo: Ma Pa- loma. Lui e Georges Braque, suo compagno di miracolo, snaturano oggetti umili. Si allontanano dallo studio? Sulla collina di Montmartre ritroviamo i modelli che sono stati l'origine delle loro armonie: cravatte bell'e fatte presso i mereiai, finti marmi e finti legni dei banconi, pubblicità di assenzio e di Bass, fuliggine e parati degli edifici in demolizione, gesso del gioco della campana, insegne delle rivendite dei tabacchi su cui sono ingenuamente dipinte due pipe Gambier, tenute insieme da un nastro azzurro cielo. Dapprima i quadri, spesso ovali, sono delle monocromie avana di una grazia astratta. Poi le tele si umanizzano e le nature morte cominciano a vivere per quella strana vita che non è altro che la vita stessa del pittore. I chicchi dell'arte non ingannano più gli uccelli. Soltanto la mente riconosce la mente. Il «trompe-l'esprit» esiste. Il «trompe-l'oeil» è morto. Bisogna vedere il momento in cui il wattman malagueno sfuma una Malaguena con il Tram pieno di viaggiatori stupefatti. Allora è incredibile. Sia che disegni con una parentesi una corrida, senza che la penna si stacchi dal foglio, sia che piegando un foglio di latta, componga una poesia plastica, sia che in una notte, assistito dagli angeli, costruisca parecchie donne-colosso, delle «Giunoni dagli occhi di vacca», con un drappo di pietra nelle grosse mani spezzate. Mani spezzate? Occhi di vacca? Queste donne sono mostri, dite voi. Tutto dipende dall'uso che ne fate. C'è un mondo tra l'intensità d'espressione e la caricatura. Per chi non se ne rende conto gli scultori di Egina, Giotto, il Greco, Fouquet, Ingres, Cézanne, Renojr, Matisse, Derain, Braque, Picasso diventano caricaturisti. Un pittore che ha solo talento, per esempio un Carolus Durand, e i Carolus Durand di tutte le epoche con cui il Louvre si fa onore, possiede il necessario. Altri pittori, più dotati, ma meno solidi (una Berthe Morisot) possiedono solo il lusso. Un Manet combina le due cose. Ma è raro che un ricco disponga di molto denaro spicciolo. Picasso aggiunge il denaro spicciolo alla sua ricchezza. Gli cade dalle mani, dalle labbra. Parla? La sua battuta fa apparire sotto una luce crudele quel che dice. Tocca un giocattolo del figlio? Non è più un giocattolo. L'ho visto sbriciolare, mentre chiacchierava, un pulcino d'ovatta che si compra al bazar. Appena l'ha rimesso sul tavolo, il pulcino era un pulcino di Hokusai. A casa sotto un bicchiere rivoltato, tengo un dado da gioco di cartone che lui ha ritagliato, piegato e colorato. Mi serve da esperimento. Infatti chi disprezza questa cosa da niente e pretende di amare Picasso non può amarlo sul serio. // lesto di Cocteau che pubblichiamo in anteprima è tratto da «Il richiamo all'ordine», che uscirà in gennaio da Einaudi, tradotto da Paola Decina Lombardi

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