SUD AFRICA MIO

SUD AFRICA MIO SUD AFRICA MIO Breytenbach: «Ey come una mandria al macello» MENTRE inseguo Breyten Breytenbach tra la Francia, la Germania e la Spagna per intervistarlo, mi vengono in mente i suoi versi: «... nella folla sei un rifugiato professionale / non bevi non fumi / siccome la tua vita è un'arma / crepi di un veleno chiamato disperazione / ti fanno fuori in un vicolo cieco come un cane». Sì, perché il poeta sudafricano, il massimo del suo paese, prima di un contatto diretto vuole verificare chi sei, quasi ad evitare un emissario in un vicolo cieco. La sua paura è ben comprensibile soprattutto in questi tempi di tensioni nel suo Paese ma soprattutto per lui che ha passato ben sette anni nelle carceri sudafricane, dal 1975 al 1982, con una condanna di terrorismo. Da sempre Breytenbach, bianco e boero, è l'alfiere della ribellione contro il razzismo e l'apartheid. Scrive in afrikaans, la lingua dei boeri, la lingua antica dell'oligarchia che lui combatte. I suoi contrasti col regime iniziano quando lui ha ventitré anni, nel 1961, allorché sposa una vietnamita, matrimonio misto assolutamente proibito in Sud Africa. Nel 1972 è tra i fondatori del gruppo bianco di resistenza antigovernativa Okhela, vicino alle posizioni dell'African National Congress (Anc di Mandela). Breytenbach è autore di numerose raccolte di poesie ma anche di racconti come Mouroir (che è mourir e miroir insieme), prose di impegno civile pubblicate nel 1983. In Italia è stato tradotto nel 1986 per i Quaderni della Fondazione Pasolini con Poesie di un pendaglio da forca e pochi mesi fa è comparso il suo romanzo-denuncia degli anni di carcere Le veritiere confessioni di un africano albino pubblicato dalla piccola e brillante casa editrice Costa & Nolan di Genova. Quando raggiungo Breytenbach temo che mi risponda con una battuta di Sipho Separala, un poeta romanziere sudafricano nero: «Come mai vi interessate tanto al Sud Africa? E' forse il puzzo dei nostri morti che vi disturba?». Non gli nego che sono la tensione e la confusione che regnano nel suo Paese che mi spingono a chiedergli cosa pensa della drammatica situazione che in questi giorni sta sconvolgendo la sua terra. Il Sud Africa — mi risponde — è come una mandria che va al macello. La situazione è sempre più esplosiva e le recenti elezioni non faranno altro che esasperare questa condizione e questa conflittualità. Intanto per la tremenda ingiustizia di fondo, cioè che votano solo 5 milioni di bianchi che pretendono di decidere per 26 milioni di neri che non hanno diritto di voto. La situazione è complessa e conflittuale più di prima. Il calo del Partito Nazionale, al potere dal 1948 e oggi guidato da Frederik de Klerk, potrebbe spingere l'asse ulteriormente a destra verso il Partito Conservatore, la destra che ha guadagnato molti seggi: tuttavia questa ipotesi è improponibile, poiché vorrebbe dire il ritorno indietro di dieci anni all'apartheid più duro. Anche il Partito Democratico ha aumentato i propri seggi, è il partito dei progressivi, disponibili ad uno Stato non razziale, ma non credo che i nazionalisti accetteranno mai questa linea di smantellamento completo dell'apartheid. La soluzione dei problemi non sta in queste elezioni. La soluzione si avrà quando si cambierà l'ottica, quando si partirà a sondare la volontà dei neri e non dei bianchi. In Europa si ha l'impressione che qualcosa di importante stia per avvenire. Il governo di Pretoria compie atti di incertezza e di confusione: imprigiona l'arcivescovo Desinone! Tutu, poi lo libera, poi lo mette nuovamente in carcere per liberarlo ancora una volta. Non sono un segno di logoramento di un regime? Ciò che avviene in Sudafrica è come un'enorme gestazione, una enorme nascita di un mammifero che ci mette anni a nascere. In questo momento è come se saltasse fuori, venisse alla luce un nuovo organo del mammifero. L'importante è che per la prima volta dal 1948 ad ora il Partito Nazionalista è contestato non solo da sinistra ma anche da destra. Mai come ora si è avuta la sensazione che con queste elezioni si chiuda un certo sistema costituzionale. Ma sono sensazioni. E' certo che dalla maggior parte dei sudafricani non si accetterà più di tornare indietro alle forme più bieche di apartheid; d'altro canto non c'è più modo, con nessun mezzo di repressione, di fare tacere i giovani neri che vogliono protestare. Da qui non si torna indietro. La partita non può durare cosi, qualcosa deve succedere. La provocazione, definiamola giuridica, è sempre più accerchiarne. E' il caso dell'arcivescovo Tutu che con grande abilità provoca continuamente il regime e lo provoca oltre che sulla sostanza anche sulla forma. Protesta, ad esempio, davanti al Parlamento di Pretoria, cosa vietata dalla legge. Si fa incarcerare, e lo fa apposta, per mettere in difficoltà il potere politico, per costringerlo a prendere la decisione o meno di processarlo: cosa che avrebbe sicuramente dei negativi contraccolpi di immagine internazionale. Tutu gioca a logorare Pretoria e Pretoria reagisce con confusione, con isteria divisa fra la stretta applicazione della legge e la forte pressione dell'immagine internazionale. E la minoranza bianca oltranzista come potrà reagire sentendosi le spalle al muro? Questa minoranza è sempre più isolata ma è sempre più aggressiva. Domenica scorsa i neri hanno organizzato su alcune spiagge sudafricane una provocazione: si sono bagnati nelle spiagge dei bianchi e ciò è reato; ebbene, la reazione violenta non è stata, come di solito, della polizia ma dei bianchi stessi, intolleranti, e questo è un brutto segno che viene dagli oltranzisti boeri che sono arroccati soprattutto nel Nord del paese o che hanno simpatizzanti nelle forze di polizia e dell'esercito. E' da questo Sud Africa trasversale che nasce il rischio peggiore del paese, quello della libanizzazione della lotta, cioè di gruppi estremi che combattono da soli, irriducibilmente. Dietro il problema politico tuttavia c'è un problema culturale, di identitàl Certo. Noi scrittori sudafricani non abbiamo la libertà di non dire certe cose. Siamo obbligati a riflettere sulla nozione di identità, siamo obbligati a definirci in rapporto all'istanza maggioritaria di democrazia. Non c'è altra via! Si tratta di creare una nuova nazione, l'idea culturale di una nuova nazione, di formare nuove coscienze; questo è qualcosa che forse in Europa si è perso da tempo, questo ruolo assoluto. Io sono fiero di battermi per la nascita di una nuova nazione culturale, per l'affermarsi di una nuova identità, di una nuova cultura che è quella del meticciato, del creolismo, non importa come sarà purché inglobi la nazione nella sua totalità. Io scrivo in «afrikaans», la lingua dei boeri, perché lì sta l'archivio della mia memoria personale, il mio paradiso e il mio inferno, ma sono contro una patria boera; io mi batto per una nazione sudafricana nella sua totalità. Ma qual è il ruolo dello scrittole sudafricano, ora, adesso, nel contesto del reale? Come africano e come sudafricano non ho scelta: essere sudafricani, diventare sudafricani vuol dire entrare nella lotta e nella resistenza. In questo momento io non vedo altre possibilità. Io non credo che siano i poeti a fare la rivoluzione; al contrario è la rivoluzione che fa la poesia e i poeti; nel mio caso specifico di scrittore bianco la cosa può sembrare più complessa, ma è così. In Europa si pensa che noi bianchi siamo europei in vacanza laggiù da molto tempo, una vacanza prolungata da cui torneremo. Non è così: io mi sento africano, sono africano. La lotta e la resisten¬ za non sono una scelta poetica, sono un bisogno, una ineluttabilità. Lei è un poeta che vive da molti anni in esilio, l'esilio quasi la definisce; il suo è un esilio come impegno, come identità. Sì, ho cercato in questi anni di evitare il vicolo cieco dell'esilio come nostalgia, come dolore. E' anche questo, ma è soprattutto ima forte presa di coscienza di me, un forte impulso allo scrivere. Sì, il mio è un esilio come identità. So che debbo usare il privilegio della mia libertà per quella lotta. Forse i miei anni di galera non sono stati che un tirocinio per questo esilio. Giuliano Scria // poeta Breyten Breytenbach, sudafricano: «Nel mio Paese c'è come un'enorme gestazione, come la nascita di un enorme mammifero... »