JAWLENSKY RISCOPERTO di Angelo Dragone

JAWLENSKY RISCOPERTO JAWLENSKY RISCOPERTO // cammino dell'artista russo in 117 opere esposte a Locamo Dal post-impressionismo aWastrazione VLOCARNO IENE inaugurata oggi a Locamo presso la Pinacoteca Comunale (aperta fino al 12 novembre) un'ampia mostra antologica del russo Alexej Jawlensky (Torjok 1864-Wiesbaden 1941): un nome familiare per chi abbia qualche dimestichezza con le avanguardie pittoriche, ricordato con quello di Kandinsky nell'ambito dell'espressionismo tedesco e col gruppo «Der Blaue Reiter», ma spesso in secondo piano. 1 Basta in ogni caso dire Jawlensky per evocare subito la sensuale vitalità di certi ritratti femminili violentemente colorati e di più rari paesaggi dominati da rossi accesi, gialli, blu: grandi occhi profondamente cerchiati e zigomi pronunciati come le cime frastagliate delle montagne. Ma non meno l'epifania delle più tarde immagini così essenziali: interiori, mentali — «canti senza parole» come le aveva definite l'artista stesso — dove dopo un'intera serie di «variazioni» su un'astrazione paesistica che gli fu di rifugio durante la prima guerra mondiale e oltre (dal 1915 al '21) aveva infine ritrovato la forza per tornare ad un volto umano/sovrumano, che nelle linee poteva legare insieme tradizione popolare e l'ori- ginale misticismo russo, mentre l'immagine dell'uomo finiva col coincidere con la forma della croce di un'icona. Avviato alla carriera militare, Jawlensky fin dal 1889 aveva sentito il richiamo dell'arte ottenendo di trasferirsi da Mosca a Pietroburgo per potervi frequentare l'Accademia d'Arte. Nel '91 vi aveva incontrato Marianne Werefkin, figlia del comandante della fortezza Pietro e Paolo, un'intelligenza rara, la «levatrice del Cavaliere Azzurro», com'efa stata chiamata per il ruolo avuto nella formazione del famoso gruppo. Dipingeva ella stessa, ma soprattutto prese subito a cuore le sorti del giovane ufficiale cui per oltre trent'anni serbò un'amorosa, sofferta, amicizia (senza infine impedirgli di sposarne la cameriera dalla quale aveva avuto l'unico figlio, Andreas). Alla Werefkin Ascona (che l'aveva poi ospitata fino alla morte nel '38) aveva dedicato l'anno scorso un'intera mostra, rievocando il suo lungo sodalizio con Jawlensky, e il merito di averne intuito il talento. Curata da Rudy Chiappini, direttore della Pinacoteca, la mostra — cui s'accompagna l'esemplare catalogo Electa con testi di Chiappini, Anne Mochon, Leinx, Àngelika Jawlensky ed Elena Hall — riunisce 117 opere datate tra il 1901 e il '37, prestate da numerose rac¬ colte private e collezioni pubbliche russe, europee e americane: con cospicui inediti. Da una sala all'altra, su tre piani, la mostra scandisce i tempi d'una diramata ricerca che rivela una formazione arricchita da sempre nuove esperienze, con gli esempi di Cézanne e di van Gogh, di Derain e degli Espressionisti per sottolineare il nodo del creativo soggiorno a Mornau, nel 1909, con Marianne Verefkin e l'altra coppia, Gabriele Munter/Kandinsky. Accanto a Kandinsky, nel 1924, con Klee e Feininger, Jawlensky costituì ancora il gruppo dei «Quattro azzurri». Ma da «Hélène in costume spagnolo», raro ritratto al naturale (1901), a «Ragazza con grembiule bianco» del 1906, si coglie già un'autonomia cui poteva mancare soltanto l'intensità più tardi maturata, mentre l'impianto della figura di tre quarti e soprattutto il rosa carico di tanti particolari (maniche, colletto, labbra, fiocco tra i capelli) sembrano in attesa di una luce più violenta, avendo tuttavia il vigore espressivo meglio caratterizzato, pur nella diversità d'una «Madre di Nikita» del '10 e della matissiana «Natura morta con tovaglia colorata» di poco anteriore alla «Testa di giovane» non immemore d'una struttura cubista. La semplificazione delle forme distingue figure e paesaggi alla vigilia della Grande Guerra, come nella testa della «Principessa con fiore bianco» e «Bordighera-Festa della natura», per passare poi alle «variazioni», già ricordate, con l'invenzione stilizzata dell'intera serie dei piccoli paesaggi. Poi le «Teste mistiche» che compaiono nell'esilio di Zurigo passando da un sembiante naturalistico all'astrazione destinata a raggiungere le forme di volti fortemente riflessivi e rigorosamente costruiti, quasi alla Mondrian, tra l'equilibrio delle partiture ortogonali e i colori compensati: sino alle semplificazioni, con i soli segni che ormai potesse dipingere facendosi legare i pennelli al braccio paralizzato dall'artrite. A tratti, negli Anni Trenta, un ritorno alle nature morte e ai fiori poteva essere un simbolo di speranza, di guarigione; con i colori l'artista esorcizzava un'ultima volta la morte ormai vicina, prima di consegnarsi alla «meditazione» dove la luce e le tinte più variegate traspaiono quasi graffiate attraverso le più cupe tonalità. Facendo della sua arte, come aveva scritto in una «professione di fede» raccolta da Marianna Werefkin, il mezzo «per esprimere le idee e le sensazioni che la natura suscita in me... Sogni dell'animo che la realtà nasconde». Angelo Dragone Una figura femminile di Alexej Jawlensky in mostra alla Pinacoteca comunale di Locamo

Luoghi citati: Bordighera, Marianne, Mosca, Pietroburgo, Zurigo