« ALFIERI, LUI SI' CHE ERA UN UOMO»

« ALFIERI, LUI SI' CHE ERA UN UOMO» « ALFIERI, LUI SI' CHE ERA UN UOMO» PASSO ora agli studi. Devo anzitutto ricordare che nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino —lera allora lasciata agli studenti libertà di scegliere le materie, non meno di nove, per i dodici esami orali prescritti. La scelta che Momigliano allora fece deve considerarsi indicativa delle preferenze e dei suoi propositi. Io non ho potuto fare una ricerca documentaria, ma spero che la memoria non mi inganni. Originaria fu la preferenza sua per l'antichità, ma nel primo biennio letteratura e filosofia ancora prevalevano per lui sulla storia. Questa prevalenza giustifica l'ipotesi che anche Momigliano, come tutta o quasi tutta la generazione sua, fosse stato, già prima di arrivare all'università, ideale allievo di Croce, del Croce teorico e critico, piuttosto che dello storico. Troppo lontana era allora per noi la Storia del Regno di Napoli; troppo vicine e troppo intrise di questioni politiche attuali sarebbero state, durante e dopo il nostro corso universitario, le due storie d'Italia e di Europa. Il Croce teorico era anche quello di Teoria e storia della storiografia, presente nella tesi di laurea di Momigliano. Ma più tarda, degli anni di Roma, dopo la laurea, credo sia stata la scoperta dell'importanza che per lui aveva, e avrebbe avuto sempre, fino all'ultimo, la Storia della storiografia italiana nel secolo XIX. Quanto al Croce teorico e critico, è da escludere che l'allievo Momigliano si contentasse mai di quella infarinatura filosofico-letteraria, che negli Anni Venti sbiancava la faccia dei giovani iniziati, alla filosofia dello spirito dal Breviario di Estetica. Già allora Momigliano detestava ogni specie di infarinatura. La sua vocazione filosofica era genuina e forte. Probabilmente aveva accolto in essa, a Cai-aglio, prima dell'università, la lezione, che certo non era stata crociana, del suo prediletto cugino Felice Momigliano, ultimamente rievocato da Alberto Cavaglion (Napoli, Istituto italiano per gli Studi storici, 1988). Coetaneo di Croce ma agli antipodi, Felice Momigliano era stato per un buon tratto più vicino a Gentile, quanto poteva essere un uomo di fede mazziniana e un socialista militante. Ma già nel 1913 la sua promozione alla cattedra di Filosofia nel parauniversitario Istituto Superiore di Magistero Femminile di Roma era parsa scandalosa ai giovani e rapaci competitori, allievi di Gentile. La guerra poi e il dopoguerra approfondirono la frattura. Anche non era facilmente conciliabile con la filosofia idealistica in genere e con quella crociana in ispecie la preoccupazione religiosa che Felice Momigliano aveva ritratto dall'ambiente famigliare e che Arnaldo ritrasse a sua volta. Nell'aprile del 1924 Felice Momigliano si tolse la vita. Nelle sue ultime volontà disponeva di essere sepolto nel cimitero israelitico di Mondovì. (...). Felice Momigliano, essendo stato allievo a Torino del lugubre poeta e professore Arturo Graf, aveva contratto il morbo della poesia, (endemico del resto sempre in tutta Italia. Negli anni Venti, dopo la grande guerra e l'epidemia, il morbo poetico era alquanto scemato nell'ambito univeristario: l'età dei professori poeti sembrava, benché non fosse finita. Anche fra gli studenti, prose critiche e narrative prevalevano sugli esercizi poetici. Questo sfondo vale per Torino, per il noviziato letterario di Giacomo Debenedetti e di Mario Soldati, entrati nell'università poco prima, e di Cesare Pavese, coetaneo di Momigliano e suo antitetico compagno, entrato subito dopo. L'oscillazione fra poesia e prosa e la ricerca di una poesia narrativa e prosastica erano già allora e restarono tipiche dell'isolato e irto Pavese (...). Fino a contraria prova, credo che Arnaldo Momigliano studente sia stato immune da velleità poetiche e letterarie. Una contraria prova non mi turberebbe: chi è senza peccato lanci la pietra. Nel luglio del 1927, da Portorose in Istria, dove era in vacanza balneare con la famiglia, mi scriveva di essere «im¬ merso nell'ozio più perfetto... troppo svagato per poter pensare alla tesi e a certi-aspetti dal rapporto fra verità ed eticità che venivo considerando nei giorni scorsi». Nella qual considerazione credo si debba riconoscere l'influsso che su di lui ebbe allora Erminio Iuvalta, professore di filosofia morale a Torino. In quell'ozio estivo e mediterraneo scriveva di essere intento a; leggere il Nordsee di Heine, uno dei testi sacri, allora, nella scuola torinese di Arturo Farinelli. E poiché scriveva a me che "'ero a Romagnano Sesia, concludeva: «E tu che fai? Dovresti fare dei versi! E' ora che ci diamo uh pòco alle Muse. Aspetta, comincio io: O di vigneti cinta Romagnano. Deh, deh, non bastonare Momigliano». Dove è notevole che la parodia fosse ancora a specchio di Carducci, non dei successori suoi Pascoli e D'Annunzio, sostanzialmente d'accordo in ciò col maestro della generazione nostra Croce. La parodia, e insieme l'accordo col maestro della nuova critica, d'una critica sempre disposta alla facezia e, occorendo, alla sferza, importavano il rifiuto dell'ozio poetico, non certo di uno studio serio della letteratura. Questo era, anche per Momigliano, come per la maggiornaza dei suoi compagni, importante, quanto ogni altro studio. Non però più della filosofia a quella data. Già ho citato altra volta a questo proposito un passo di lettera del 20 settembre 1926 da Caraglio. Devo ripetere qui ampliata la citazione, perché mi pare testimonianza preziosa dello stato d'animo di lui dopo il primo anno d'università: «Sento il bisogno di libertà anche per poter meditare un poco tranquillamente su tutte le questioni spirituali che mi si presentano ovunque rivolga la mia mente... Premetto che so benissimo come la nostra età sia più adatta a sentire i problemi che non a risolverli; e chi può dire d'altronde se riuscirò mai a risolverli in futuro, sia pur soltanto a mio uso e consumo? Tuttavia credo oggi che sia ancora affatto vivo quel problema che mi sembra centrale nell'idealismo contemporaneo: dato che la verità non può essere la nostra verità, dato che perciò l'uomo è il centro della realtà, cercar di mostrare ciò che al difuori della nostra realtà (la realtà storica) non si può concepire altre realtà. Ma per contro ti confesso che, per quanto non ignori i tentativi crociano-gentQiani di dare un significato umano anche all'impossibilità di raggiungere l'assoluto, non riesco a vincere quel senso della trascendenza, che in me assai spesso torna. Sicché oggi, pur ammirando il prometeico sforzo dell'idealismo, non so ancora ben orientarmi in esso o di fronte ad esso. La colpa è certo in gran parte degli studi per ora assai superficiali, ma forse anche un poco delle manchevolezze che intravedo nella filosofia dominante. Non si può negare che oggi non si comincino a manifestare, benché in modo confuso, tentativi di revisione del gentilianesimo. Si sente però più che altro dello smarrimento, nascosto quasi sempre da parole grosse, invece proprio quello smarrimento noi iuniores dovremo cercar di evitare per non pèrdere la fede nell'opera del pensièro. Il meglio è perciò intanto tuffarsi spesso nella grande poesia, che ha il merito di ridare sempre mólta serenità fiduciosa, E sai chi dovremmo riabituarci a leggere? LAlfieri. Quello era un uomo!». Tucidide come «pietanza» Il 1° agosto 1928 da Portorose, dove era tornato con la famiglia per i bagni, Momigliano mi scriveva di essersi fissato «per pietanza quotidiana» da dieci a quindici capitoli di Tucidide. Doveva'trattarsi di una seconda, sistematica lettura del testo, perché la lettera dimostra che il lavoro era già in uno stadio avanzato e che in ispecie era già chiara e ferma la posizione critica nei confronti della vasta bibliografia sull'argomento. Notevole quel che allora mi scriveva a tale proposito: «Io non so:., se i pochi risultati finora raggiunti da me siano originali rispetto a tutta la letteratura tucididea; ma se anche lo sono, hanno sempre nella maggior parte il carattere di capovolgimenti delle idee altrui: cioè, non esprimono un punto di vista altrui». Momigliano ebbe sempre una eccezionale capacità di riconoscere a prima vista errori, lacune, punti deboli, e demolire q capovolgere gli argomenti altrui. Ma sorprendente è il fatto che uno studente ventenne, al suo primo impegno di ricerca, riconoscesse insieme il suo punto forte e il suo limite. Di qui poi, per tutta la vita, l'insaziabile informazióne bibliografica, oltre i limiti della propria disciplina, e il pronto e rigoroso controllo di quella bibliografia in forma di recensioni, commenti, discussioni, e però anche la ricerca altrettanto insaziabile di nuovi testi, indirizzi, problemi negletti da altri. E' probabile che nel campo, di più antica e più larga tradizione, degli studi classici, si manifestasse prima la crisi dell'abnorme crescenza bibliografica e critica, che si aprì poi via via in altre discipline e che ha finito coll'imporre a molti di noi, per disperazione del meglio e salvezza del bene, il recupero dei soli testi e lo scarto delle moderne chiacchiere. I rischi dello scarto sono ovvi. Fino all'ultimo Momigliano storico non ha mai disperato del meglio. Men che mai lo studente, il laureando, allo scatto iniziale. Non che essere oberato e impacciato dalla bibliografia su Tucidide, era avido ai letture tutt'altrè e, leggendo, giudice incisivo. Carlo Dionisotti