Inchiesta sul popolo delle prigioni, fabbriche di handicap

Inchiesta sul popolo delle prigioni, fabbriche di handicap Un libro di Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero accusa: «il carcere produce malattie e malati» Inchiesta sul popolo delle prigioni, fabbriche di handicap «Non dire mai di essere disperato, fa parte del rituale, il detenuto deve pagare» ONTANA dagli anni delle rivolte, delle denunce sui braccetti della morte, della «giustizia proletaria» che colpiva gli «infami», la prigione sollecita sporadicamente l'interesse dei «media». Attuale è sempre soltanto per il popolo dei detenuti che non possono sottrarsi alle ossessioni del suo microcosmo. Su tutte, quella dominante dei progetti di liberazione, in forma di amnistia, di permessi, di scadenze termini, di fine pena, o di evasione. Un approccio originale e spietato alla problematica carceraria viene da un libro-inchiesta di due torinesi — il primo di nascita, il secondo di adozione —, Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero, che già nel passato, non rincorrendo le mode, hanno portato a termine in sodalizio interessanti lavori sull'emarginazione. Spietato è l'addebito che Gal¬ 10 e Ruggiero fanno alla moderna istituzione della pena detentiva. Nell'introduzione si precisa che il libro «non tratterà degli abusi, delle illegalità e violenze che quotidianamente si compiono entro le mura carcerarie». Gli autori si sono chiesti se «al di là delle malattie sociali di volta in volta più allarmanti», oggi l'Aids, «la detenzione in sé non produca dei suoi specifici handicap». E la risposta è che 11 «carcere — anche il più riformato — produce in varie forme e secondo differenti intensità, sofferenza e sofferenti, malattie e malati». E' insomma «una fabbrica di handicap psico-fisici». Un concetto, quello di «handicap indotto», per il quale nel testo si fa riferimento alle formule note, nel campo psicoanalitico, di Alfred Adler. L'originalità consiste in una ricerca che rovescia il percorso, abusato, che porta dal disagio al carcere in un percorso inverso: dal car¬ cere al disagio come malattia che diventa concretamente «sociale». L'inchiesta non trascura dunque di indagare varie proposte abolizioniste circolanti per l'Europa. Nell'introdurre il tema dell'abolizionismo e degli esperimenti inglesi, danesi e olandesi, gli autori che ammettono di avere in bilancio il rischio «di far sorridere» spiegano: «Si consideri innanzi tutto quello abolizionista un metodo, non un programma immediato; un approccio, non una panacea; una critica alla scienza penologica, non una nuova e legnosa teoria scientifica». Gli autori accennano ad una certa qua! «ansia», riscontrata nella loro ricerca, anche in «insospettabili illuminati», in presenza di cronache (il «delitto del catamarano») che occupano le prime pagine dei giornali. Ansia che fa di «ognuno il dosatore equanime di un quantum di pe¬ na oggettivamente meritata» dai protagonisti della vicenda. «Illuminati» alla Jeremy Bentham? Questi aveva il cruccio che il fustigatore potesse colpire, con più o meno forza a seconda del proprio umore, il reo condannato. Dunque proponeva una «macchina dotata di stecche di balena e di corregge volanti» che potesse garantire «identica ed equa energia alle sferzate da infliggere». Ermanno Gallo, 41 anni, laureato in Filosofia estetica, è stato detenuto per l'inchiesta sulla rivista Controinformazione, accusata, di aver avuto nei primi anni di piombo un ruolo di fiancheggiamento del «partito armato». Conosce dunque molto bene, non solo come studioso, ma come protagonista del mondo segregato, quel «pudore» che impedisce, soprattutto nei bracci dei «politici», di ammettere le sofferenze indotte dalla detenzione. «Quando non ce la fai più — dice una delle testimonianze raccolta nel libro — non devi darlo a vedere, altrimenti anche gli altri compagni ti evitano: una persona depressa non serve a nessuno, anzi una persona disperata può diffondere una specie di contagio che terrorizza chi le sta attorno». E ancora: «E' una specie di congiura del silenzio nella quale vengono coinvolte anche le persone che si incontrano al colloquio: nessuno deve dire o far notare di star male, né vedere o far notare che l'altro sta male». Al contrario, tra i comuni l'atteggiamento, può rivelarsi opposto: «Guai a dire che si sta bene. Si soffre e basta. E' un luogo comune che fa parte del rituale. Altrimenti crolla tutta l'idea che il detenuto paga, paga con la propria sofferenza le scelte che ha fatto». I sottocodici, l'uso criptico delle parole, i comportamenti dell'universo dietro le sbarre, dalle Nuove a San Vittore, sono analizzati con attenzione nel libro che offre, un interessante spaccato del popolo delle prigioni. Il Carcere immateriale tuttavia — è il titolo del libro delle edizioni Sonda—non è un testo piacevole. Non conforta la buona pace della coscienza di chi troppo facilmente scarta le alternative praticabili alla pena detentiva. «A chi sdegnato — conclude Massimo Pavarini presentando l'opera — allontana lo sguardo dal supplizio, non resta che agire per abolire quel supplizio):. Ed è quello che hanno inteso fare Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero nel dedicarsi, agendo, a questa ricerca perché «il carcere — come scrivono i due autori parafrasando Roland Barthes — non obbliga a tacere, obbliga a parlare». Salvatore Rotondo

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