Alla radio voci di guerra totale

Alla radio voci di guerra totale Da strumento di propaganda a testimone, tra speranze e stermini Alla radio voci di guerra totale Beethoven fu interrotto, e udimmo le bombe «3 settembre... Per tutto il pomeriggio abbiamo ascoltato la radio, passando da un Paese all'altro: l'Europa che entra in guerra. Poi il discorso del re d'Inghilterra, lento e ansimante, ma molto commovente, e "Dio salvi il Re". Più tardi parliamo di come reagirà il popolo italiano...». Questa annotazione, tratta dal Diario italiano 1939 di Iris Origo, ci introduce nelle emozioni, nelle paure, nelle angosce collettive che, esattamente cinquant'anni fa, il 3 settembre 1939, segnarono in Europa e nel mondo l'inizio della seconda guerra mondiale. Due giorni prima, il 1° settembre, le truppe naziste avevano invaso la Polonia. Per due giorni fu ancora possibile coltivare l'illusione che si potesse risolvere tutto in un conflitto locale, che ancora una volta — come era già successo per l'Austria, l'Albania, la Cecoslovacchia — le grandi democrazie occidentali lasciassero campo libero all'iniziativa aggressiva dei Paesi nell'Asse nella speranza di salvaguardare a tutti i costi una pace che sarebbe equivalsa a una resa. Poi, proprio quel 3 settembre, alle 11 e 15, dal numero 10 di Downing Street, il primo ministro Neville Chamberlain annunciò al suo popolo la decisione di schierarsi accanto alla Polonia aggredita e il conseguente inizio delle ostilità contro la Germania; poche ore dopo toccò a Daladier per la Francia seguirne l'esempio. E a quel punto fu chiaro per tutti che la seconda guerra mondiale era cominciata davvero. Nella storia dell'umanità fu la prima «guerra totale» in senso geografico (con operazioni militari su larga scala che interessarono tutti i continenti), ideologico (con la contrapposizione tra democrazia, socialismo, nazismo, fascismo) e materiale (con la mobilitazione totale delle risorse umane e delle macchine produttive dei vari Paesi); una guerra totale intesa quindi non genericamente come una guerra combattuta con ogni mezzo, ma come una guerra che effettiva mente coinvolse tutte le compo nenti politiche, sociali, naziona li degli Stati belligeranti, infie rendo drammaticamente, in modo diretto, anche sulle popolazioni civili. Le bombe azzerarono le classiche distinzioni del la guerra 1914-1918, tra fronte e retrovie, tra linea dei combattenti e il resto del territorio nazionale. Soltanto nelle città e nei paesi italiani, alla fine, dopo 58 mesi di bombardamenti, si con tarano 64.353 vittime, di cui 59.796 civili e 4558 militari. Le tappe della generalizzazione e dell'estensione del conflitto seguirono cadenze ravvicinate, secondo una successione di date fissate in maniera indelebile nella memoria collettiva di mi lioni e milioni di persone: il 10 giugno 1940, l'entrata in guerra dell'Italia, il 22 giugno 1941, l'invasione dell'Unione Sovietica ad opera delle truppe naziste, e poi quella decisiva, il 7 dicem bre 1941, l'attacco giapponese contro la flotta americana Pearl Harbour, quando due altri contendenti entrarono in lizza, le ultime due grandi potenze che ancora mancavano all'ap pello dei Paesi belligeranti; da quel momento non una sola area geografica terrestre fu ri sparmiata dal conflitto. |A rendere percepibile, controllabile, immaginabile, l'orrore di questi enormi spazi di morte fu I la radio. Grazie a questo nuovo strumento di comunica zione, gli uomini ebbero la pos sibilila di inseguire nello spazio e nel tempo la gigantesca ondata distruttiva che da remote regioni rotolava a minacciare la loro esistenza. In questo senso la testimonianza iniziale di Iris Origo ci appare doppiamente preziosa: quell'affannoso ruotare di manopole, quel rimbalzare da una stazione radio all'altra quell'inseguire nell'etere parole di speranza o minacce di sterminio, sono le coordinate al cui interno fu vissuta quella tragica realtà di cinquant'anni fa Fino ad allora la radio era sta ta prevalentemente uno stru mento di intrattenimento, nuovo media e cui, soprattutto l'America della metà degli Anni Venti, l'America degli «anni fol li», aveva affidato la sua voglia di vivere, ballare, dimenticare (nell'euforia produttivistica che precedette i giorni funesti del crollo di Wall Street) le restri zioni economiche e le ossessioni puritane seguite alla fine di un'altra guerra, quella del 19141918. Era stata anche, specialmente in Europa, il veicolo di un originale tipo di divulgazione culturale, segnato da nuove tecniche di elaborazione che — per il loro carattere di massa — scardinavano ogni concezione aristocratica della cultura, reinventando — come sosteneva Walter Benjamin — «i modi di avvicinare l'arte al pubblico», così «da dare coscienza politica nuova e nuovi metri di valutazione e di giudizio alle masse, in precedenza escluse dai canali di comuncazione delle idee». Ma, purtroppo, era stata anche, grazie a Hitler, a Mussolini, a Stalin, un formidabile strumento di oppressione, di propaganda bellicista e razzista, di livellamento ottuso, di reazione e di conservazione: «Bisogna forgiare e limare le persone fino a quando saranno diventate schiave, questo è uno dei compiti principali della radio tedesca», così Goebbels, il 12 maggio 1933, aveva concluso il suo discorso ai sovrintendenti delle società radiofoniche tedesche. Era comunque il primo strumento che poteva chiamarsi «di comunicazione di massa» in senso proprio. La televisione, nel 1939, muoveva i suoi primi passi sperimentali; i grandi giornali erano radicati e circoscritti nella comunità locale o, al massimo, nel territorio nazionale. Pochi snob, allora, erano riusciti a sottrarsi al fascino della radiofonia. Su quel 3 settembre 1939, ore 11 e 15, leggiamo quest'altra testimonianza, quella di Harold Nicholson, tratta dai suoi Diari e lettere, 1938-1962: «Eravamo nel salotto. Il mio ospite non aveva un apparecchio radio ma la sua cameriera ne possedeva uno e ce lo portò poco dopo le undici. Può apparire strano che nel 1939, in una casa benestante, ancora non ci fosse la radio, e che invece la cameriera ne avesse una per sé. Ma non è strano perché in taluni circoli la radio non era stata ancora accettata, la si considerava un divertimento per le masse che le persone colte e intelligenti avevano il dovere di non ascoltare». Con l'inizio della seconda guerra mondiale non fu più così. Anche gli aristocratici londinesi si incollarono a quegli apparecchi per cogliere gli echi di lontane voci di guerra. I La radio in guerra fu soprattutto informazione e il suo successo sugli altri media fu essenzialmente I legato alla istantaneità delle sue notizie. Alla Bbc fu subito introdotta la regola che qualsiasi informazione importante dovesse essere mandata in onda non appena ricevuta, anche se si sconvolgeva continuamente l'ordine tradizionale dei palinsesti. La tiasmissione più seguita dell'Eiar fascista era il Bollettino di guerra, trasmesso alle 13, che ogni giorno doveva essere ascoltato in piedi e a capo scoperto. I «.fiduciari per la radio», istituiti il 9 luglio 1S42, avevano tra i loro compiti prin- cipali proprio quello di vigilare che quella procedura di ascolto fosse correttamente seguita. Ma la radio, diffondendo gli eventi, in qualche modo contribuiva anche a crearli. All'alba del 7 dicembre 1941, le stazioni della costa americana del Pacifico stavano trasmettendo la Sinfonia n. 7 op. 92 in la maggiore di Beethoven; di colpo la musica si interruppe lasciando irrompere la voce del radiocronista John Daly: nel ricordo di milioni di americani, per anni quella voce, quella musica spezzata, rappresentarono Pearl Harbour più delle bombe giapponesi, delle corazzate affondate, degli aerei schiantati al suolo. Una profonda suggestione evocativa emerge oggi da quei frammenti radiofonici in cui sono conservate alcune di quelle notizie istantanee: la radiocronaca del trionfo di Hitler a Berlino, il 6 luglio 1940 (con il radiocronista, totalmente in balia del delirio della folla, che urla «siamo toccati nel profondo dell'anima dall'amore, da questo amore infinito di un popolo verso il suo Fùhrer»); l'attentato a Pierre Lavai, il 27 agosto 1941, dove quattro spari secchi, isolati, sovrastano di colpo la concitata voce dello speaker provocando un silenzio irreale in un mondo che pure conviveva da anni con il fragore delle cannonate e gli schianti delle bombe; lo sbarco a Dover dei soldati inglesi sfuggiti alla trappola infernale di DunkerqUe, con i microfoni della Bbc che imperturbabili registrano la rabbia, la voglia di rivincita, lo sconforto, l'ottimismo di quei ragazzi. E poi la caduta di Singapore, la registrazione radiofonica dei combattimenti tra tedeschi e sovietici a Borodino, a 100 km da Mo- sca, la documentazione degli scontri feroci e disperati di Stalingrado, di El Alamein, delle Midway, le battaglie che, alla fine del 1942, sui tre principali fronti segnarono la sconfìtta dell'Asse, l'inizio di una inversione di tendenza destinata a concludersi soltanto tra le macerie del bunker della cancelleria a Berlino nell'aprile 1945 e nell'orrore dell'olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, nell'agosto 1945. jg I Annullando le distanze #1 la radio faceva sentire i ^1 combattenti e le loro faTf miglie più vicini, portava _*J la guerra sull'uscio di casa. Un documentario «Luce» del 23 maggio 1942, girato in piazza San Marco, a Venezia, ce ne fornisce un esempio efficace. Le sue immagini documentano, infatti, un radiomatrimonio: attraverso i microfoni dell'Eiar dieci ragazze veneziane scambiano il loro «sì» con i fidanzati imbarcati su un cacciatorpediniere in crociera nel Mar Egeo; l'ènfasi retorica dello speaker non riesce a cancellare l'impressione di toccante sincerità che quel «radiomatrimonio» ispira ancora oggi. Il Partito Nazionale Fascista gestiva direttamente Radiofamiglie, trasmissione «per l'assistenza, il consiglio, il conforto ai congiunti dei militari al fronte», mentre alle cure del ministero della Cultura popolare eia affidata la Radio del combattente, trenta minuti in onda ogni sabato e domenica. Negli archivi di Francoforte della radio tedesca è conservata la registrazione dell'arrivo delle truppe naziste in un campo di prigionieri italiani, in Grecia, nel maggio 1941. L'umiliazione di essere stati sconfitti da un Paese pacifico, male armato, proditoriamente aggredito, quelle sconfitte che nell'ottobre 1940 avevano fatto naufragare nel ridicolo il disegno mussoliniano di «spezzare le reni alla Grecia», appaiono dimenticate di colpo: le voci dei nostri connazionali trasudano felicità, una ingenua speranza: «La guerra è finita» si sente urlare nei microfoni del Servizio di propaganda della Wehrmacht. Dagli archivi della Bbc arriva un documento molto simile: prigionieri inglesi, rinchiusi nel campo di concentramento di Sulmona, si mettono in contatto con i loro cari attraverso la Radio Vaticana. E' un puntiglioso elenco di richieste: cappotti, viveri, medicine, ma anche un susseguirsi di struggenti saluti appena mormorati. «Il soldato Marcel Fillon sta bene... è stato leggermente ferito e saluta i suoi genitori»: così dalla radio del Reich veniva lanciato un ponte tra le famiglie lontane e i prigionieri catturati sul fronte occidentale. Solo dai Lager di sterminio i microfoni tacevano. La radio portava ai combattenti schegge di vita familiare e di affetto, portava canzoni, creava miti ingenui soltanto evocati; non le gambe di Betty Grable o il seno di Rita Hayworth, ma la voce di Sara Leander che canta Vor schunkenden Soldaten, le note struggenti di Lili Marlene o Tornerai, i versi di una canzone di Olias, Quando ci sarà pace a Berlino («Quando non cadranno più le bombe noi vecchi guerrieri faremo vedere che sappiamo ancora ballare e allora ci sarà pace a Berlino»). Formidabile strumento per confrontarsi con la dilatazione del tempo e dello spazio che la dimensione totale del conflitto lasciò irrompere nella quotidia- nità dell'esistenza collettiva, la radio fu strumento di guerra essa stessa; nell'etere si combatté una guerra per onde la cui asprezza non ebbe niente da invidiare a quella combattuta con le armi. Alcuni dei protanisti di quelle battaglie radiofoniche sono oggi famosi come gli Eisenhower, i Montgomery, i Rommel, i Patton. Basta citare, per l'Italia, il colonnello Stevens o Candidus che trasmettevano da Radio Londra, Appelius che scaraventava le sue maledizioni dai microfoni dell'Eiar, e, più in generale, le voci dei «traditori»: Tokyo Rose, la voce femminile che invitava i ragazzi americani che combattevano nel Pacifico a disertare; William Joice, un inglese emigrato a Berlino nel 1938 per diventarvi uno dei più accesi propagandisti del nazismo. Meglio conosciuto come Lord Haw Haw, per tutta la guerra Joice si rivolse ai suoi connazionali dalla stazione radio di Zeesen, in un delirio di esaltazione di Hitler, coprendo di invettive Churchill: catturato alla fine della guerra Lord Haw Haw fu poi impiccato a Londra nel 1945. E con Lord Haw Haw ancora, sempre tra i nazisti, l'americano Douglas Chandler, poi Robert Best e Mildred Gillars che assunse il sinistro pseudonimo di Sally Axis. E poi Ezra Pound, l'unico grande intellettuale messo in campo dal fascismo: con una voce ora cavernosa, or stridula, con tono sempre ieratico, Pound da Radio Roma si rivolgeva ai suoi connazionali per celebrare i fasti del corporativismo fascista ma soprattutto per maledire l'asservimento dei suoi connazionali «all'oro degli ebrei». I discoris di Ezra Pound sono tutti conservati ai National Archives di Washington. Riascoltarli è come precipitare in un pozzo senza fondo di fanatismo religioso e di accecamento della ragione. Con Pound si potrebbe aprire il capitolo relativo al coinvolgimento degli intellettuali più prestigiosi nelle centrali propagandistiche installate presso le radio dei Paesi belligeranti: da Einstein a Thomas Mann, da Huxley a Keynes. Ma c'è un ultimo aspetto sul quale vale la pena soffermarsi. Riascoltando oggi le «voci di guerra» conservate negli archivi radiofonici, si è condotti all'interno di una vera e propria babele linguistica, con alla fine un effetto di straniamento, quasi di stupore. E' come se si assistesse alla nascita in diretta di un nuovo mondo, quello nel quale ancora viviamo. La radio enfatizza gli schieramenti nel cielo della politica e dell'ideologia, ma li annulla, li omologa, li appiattisce nella concretezza dei comportamenti collettivi. Abbiamo per anni ironizzato su una canzone come «Orticello di guerra», sui giardini pubblici delle nostre città trasformati in campi di grano, sulle mietitrici sul sagrato del Duomo a Milano, sulle bizzarrie autarchiche dei surrogati. La fantasia delle nostre massaie ci sembrava unica e inesauribile: quelle palle di carta pressata a sostituire il carbone, quei cappotti vecchi trasformati in giacche nuove, quelle erbe buttate nei minestroni. Ebbene la radio ci restituisce quelle stesse imma¬ gini, quella stessa disperata capacità di arrangiarsi in tutti gli altri scenari della guerra: The Kitchen Front era una delle trasmissioni più seguite della Bbc e il suo compito era suggerire ricette autarchiche, inventarsi mille variazioni per un unico piatto, il tacchino. Nei confronti dei singoli segmenti del «fronte interno», le donne, gli operai, gli intellettuali, ci si imbatte dovunque negli stessi accenti propagandistici, negli stessi stereotipi culturali. Le donne, ad esempio. La guerra totale le coinvolse integralmente, alterando per lunghi anni le cordinate al cui interno si era fino ad allora prevalentemente dislocata la condizione femminile, scaraventadole in contesti sociali e produttivi del tutto mediti. Ebbene, in Germania come in Inghilterra, in Unione Sovietica come negli Stati Uniti, la radio documenta per tutte la persistenza di ruoli tradizionali (le crocerossine, le madrine di guerra, le «madri del popolo») accanto ai nuovi ruoli nel mondo del lavoro (le postine, le conduttrici dei tram, l'impegno nell'industria bellica), alla permanenza di alcuni simboli dell'immaginario maschile (le pin-up, le mamme), all'affiorare di comportamenti più liberi grazie alla lontananza degli uomini al fronte (i balli, i rapporti con i colleghi di lavoro, lo stesso coinvolgimento nelle istituzioni sociali del fascismo). Attraverso la radio emergono nitidamente i contorni della «grande trasformazione» studiata da Polanyi: nel ventennio tra le due guerre mondiali crollò il sistema economico e monetario internazionale e l'equilibrio mondiale si ridefinì intorno all'ascesa della potenza economica degl Usa; alla disfatta del modello statuale liberale in Italia e in Germania si accompagnò la sua modificazione qualitativa in tutti gli altri Stati, sotto la spinta del mutato rapporto tra Stato e economia; la massificazione della partecipazione politica segnò la crisi degli antichi valori culturali e sociali. L'organizzazione scientifica del lavoro e la razionalizzazione produttiva, lo Stato interventista e la subordinazione delle èlites intellettuali alla «macchina» propagandistica delle comunicazioni di massa, distrussero tutti i riferimenti strutturali, istituzionali e culturali del vecchio ordine ottocentesco. Questi meccanismi operarono in profondità in tutti i Paesi industriaUzzati dell'Occidente, quasi a prescindere dai loro contesti ideologici e dai loro regirai politici. All'insegna di nuove abitudini, consumi, forme di comunicazione e di scambio il mondo tese a unificarsi, forzando la rigidità delle barriere ideologiche. Momento di disvelamento e di verifica del processo aumentato da questi meccanismi di trasformazione, la seconda guerra mondiale segnò così contemporaneamente la fine di un periodo storico e l'introduzione a una nuova fase che, in questi tratti essenziali, si manifesta in marniera totalmente dispiegata ancora nella società contemporanea. Giovanni De Luna Mildred Gillars che col sinistro pseudonimo di Sally Axis lavorava per i nazisti