Una pizza da 21 mila miliardi di Fulvio Milone
Una pizza da 21 mila miliardi Troppe le «ricette pirata», chiesta una legge che stabilisca gli ingredienti Una pizza da 21 mila miliardi E' il fatturato-record del settore nell'88 NAPOLI. Vale tant'oro quanto pesa, la napoletanissima pizza. Nel 1988, in Italia, ha prodotto un fatturato pari a quello di un colosso dell'industria nazionale: 21 mila miliardi. Il numero degli addetti è degno del massimo rispetto: 176 mila 790. Gli esperti assicurano che il mercato è ancora tutto da sfruttare: «Nell'ultimo anno i punti di vendita hanno registrato un incremento del venti per cento, e tutto fa pensare che la percentuale sia destinata ad aumentare. Secondo le nostre valutazioni il settore potrebbe assorbire in tempi brevissimi altri cinquantamila posti di lavoro». Il quartier generale dei «manager della pizza» è l'Apes, Associazione pizzaioli europei sostenitori, che ha preparato una minuziosissima ricerca socioeconomica sulla celebre pietanza. Spulciando tra le cifre salta fuori che ogni giorno i ristoranti italiani sfornano circa sette milioni di pizze. «Il dato non deve stupire: si tratta di un alimento gustoso, facilmente digeribile e soprattutto economi¬ co — commenta Antonio Pace, vicepresidente dell'Apes —. Queste tre caratteristiche fanno del prodotto il cibo ideale per ogni categoria sociale». Il prezzo varia dalle dieci alle dodicimila lire per i locali pubblici con servizio al tavolo, e dalle mille alle milleduecento lire per le rosticcerie. Al grido di «pizza è bello» i responsabili dell'Apes sfoderano progetti ambiziosi, oltre che cifre elaborate al computer. E insistono sull'enorme potenziale offerto dal settore dal punto di vista occupazionale. «In Italia — dicono — esistono 26 mila pizzerie e 13 mila 375 ristoranti-pizzerie. Oggi stentiamo a far fronte all'offerta di lavoro che cresce a vista d'occhio. Ogni anno servono cinquemila addetti: 4800 di essi non hanno specializzazione di sorta, mentre solo duecento escono dalle scuole che fanno capo all'associazione». Ecco, dunque, la prima proposta: «Perché non incentivare la creazione di scuole di formazione professionale?». Pizzaiolo non si nasce, ma si diventa. E a prezzo di grandi sacrifici e lunghi studi, assicurano i cultori della materia. «Apprendere l'arte non è facile — conferma Antonio Pace —. La pizza, quella vera, è il frutto di antiche tradizioni di cui ancora pochi sono al corrente». Non molti sanno, ad esempio, che per l'impasto classico bastano quattro semplici ingredienti: acqua, farina, sale e lievito. «Vi sono ancora individui che si spacciano per pizzaioli e aggiungono grassi animali, ritenendo che in questo modo la pietanza sia più saporita — commenta sdegnato Antonio Pace —. Altri sono ancora convinti che il forno elettrico possa sostituire quello a legna. Il risultato è che il cliente si vede servire sul piatto una crosta di pane condita con un po' d'olio e pomodoro». Stanchi di quelli che non esitano a definire «pirati», i rappresentanti dell'Apes chiedono aiuto al Parlamento. Invocano una legge che stabilisca una volta per tutte come debba esser fatta la vera pizza: «Che sia vietato l'uso di grassi nell'impasto, e che la pietanza sia cotta solo nei tradizionali forni a legna. Per quanto riguarda i condimenti ognuno si regoli come vuole: sui gusti non si discute, purché gli alimenti impiegati siano della migliore qualità». Decisi a dare dignità imprenditoriale all'«artigiano pizzaiolo», gli esperti dell'Apes si comportano da manager di rango che guardano al futuro. Non a caso nella ricerca che hanno elaborato c'è spazio anche per l'identikit del consumatore più assiduo. Il 28,5 per cento della clientela è composta da giovani ventenni, che prendono d'assalto le pizzerie prevalentemente nei mesi caldi (da giugno a settembre) e nelle ore serali (dalle 19,30 alle 21,30). Il 26,3 per cento è di età compresa tra i 21 e i 30 anni, mentre i quarantenni costituiscono il 23,7 per cento. Solo il 13,5 per cento, infine, è formato da maturi buongustai cinquantenni. Fulvio Milone
Persone citate: Antonio Pace
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