Dreyer della verità

Dreyer della verità Venezia celebra l'arte profonda del regista danese, autore della «Passione di Giovanna d'Arco» Dreyer della verità Scandagliò i volti umani VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO C'è un momento di assoluta tenerezza e sorpresa nel finale di Il pranzo di Bàbette, che l'anno scorso valse a Gabriel Axel il Premio Oscar per la produzione straniera. A poco a poco si scopre qualcosa di famigliare nel volto di due tra gli ospiti della tavola imbandita con finezza da Stéphane Audran: la vedova e il capitano, amanti infelici, sono interpretati da Lisbeth Movin e Preben Lendorff Rye i quali — quasi non fossero passati 45 anni dal Dies Irae — continuano a rimproverarsi l'eccesso di passionalità nei confronti della tradizione puritana. Erano stati gl'interpreti di uno dei massimi film di Cari Th. Dreyer, il grande regista danese che la Mostra di Venezia onorerà nella seconda settimana di settembre. La genialità di Dreyer trascorre come un lampo nell'intera storia del cinema, dal muto al sonoro, in un bianco e nero smagliante. Persino il beffardo Jean-Luc Godard, quando in Vivre sa vie vuole indicare la dolcezza d'animo d'una fanciulla destinata a perdersi, la manda in una saletta a commuoversi per La passione di Giovanna d'Arco (1926-'28). La protagonista Anna Karina, in un gioco d'immedesimazione che non è emotivo ma spirituale, piange le stesse calde lacrime di Renée Falconetti condannata al rogo. Si comprende come Cari Th. Dreyer ripetesse con ostinazione quanto sapeva di magìa lo scoprire in un teatro di posa che un volto si anima dall'interno per riempirsi di poesia. «Non c'è nulla al mondo che possa essere paragonato al volto umano. E' questa una terra che non ci si stanca mai di esplorare», diceva il regista. Nella sua ansia di sfuggire al vecchiume teatrale che insidiava il cinema delle origini, avrebbe quasi voluto arare il volto umano per esporne alla luce la bellezza nascosta, la fertilità espressiva. Nel muto le fisionomie lo costringevano a ricerche spossanti e proficue. Odiava il trucco, la letterarietà. Pretendeva di portare il cinema nella strada e di lì riportarlo nelle case, nelle fami- glie. Predicava che il copiare la realtà costituisce una mera perdita di tempo e sullo schermo disegnava ima sua personale realtà. La Tragedia di Giovanna è consegnata alla Storia, scandita negli Atti del processo di Rouen. Esiste insomma «un testo che, preesistendo al film, ne condiziona il linguaggio» (Pier Giorgio Tone). Al regista non interessava più di conseguenza dimostrare che la Pulzella aveva ragione e che i suci giudici meriterebbero sì la condanna. Gli basta — e noi ne saremo con lui affascinati — scavare nei volti, negli ambienti, negli sfondi. La divergenza tra la grinzosità dei prelati e la luminosità dell'accusata acquista la forza d'un giudizio morale; l'inquadratura taglia a volte gli archi e le volute per suggerire con la mancanza di verticalità una situazione di prevedibile sudditanza e condanna. Dreyer commuove attraverso lo strenuo rispetto della verità. In altri registi certe soluzioni saprebbero di accorgimento: tagliare sul serio i capelli alla Falconetti in una sequenza intollerabile per l'ingiustizia che materialmente ne emana oppure mostrare casualmente nel momento del supplizio un volo di uccelli che forse sono l'ultima immagine, un'immagine di libertà, captata dall'occhio di Giovanna già acciecata dal fumo della catasta... Così in Vampyr (1932), dove non aveva nemmeno più una morale alle spalle ma una storia paurosa da raccontare, continuerà nello studio del primo piano e nell'accostamento del montaggio. Anche qui certi segni che parrebbero eccessivi, come l'uomo dalla falce ricurva che preconizza la morte e le ombre spaventevoli che affrescano le pareti annunciando la notte, si risolvono in puro stile. E poi non manca un'ironica sapienza nella sequenza della punizione finale, dove il cattivo muore soffocato tra la farina che filtra da un mulino, in un tripudio di toni bianchi che di solito distinguono i personaggi positivi. E forse pure nella celebre sequenza della morte in soggettiva sofferta dal protagonista David Gray che sogna la propria sepoltura. In Dies Irae (1943) il vecchio pastore Absalon che ha sposato la giovane Anne è un nuovo, autentico vampiro. Ha tolto d'intorno alla moglie ogni calore umano suggestionato dalla decrepita madre. Non si è accorto di gettarla in qualche modo tra le braccia del figlio di primo letto Martin. Scoperta la tresca, la fragilità di costui si tramuterà in vigliaccheria. Anne, figlia di una presunta strega, finirà anch'ella sul rogo. Ci sono nuovamente istanti di attesa interminabili che solo il supplizio troncherà. E lacrime cocenti: che nessuno asciuga, dice Anne. Così, sempre attraverso il magistero dell'immagine, Cari Th. Dreyer è passato al sonoro servendosi d'un copione teatrale di Hans Wiers-Jensen. Le immagini nette e le inquadrature essenziali dimostrano che non si rintraccia contraddizione alcuna con le giovanili impennate del regista contro l'origine teatrale della cinematografia. Il linguaggio figurativo ha superato la strettoia del soggetto esaltando i tratti più lirici del dialogo. Con la maturità Dreyer esalta pensoso la poetica della diversità. Le sconfitte di Giovanna e di Anne brillavano di trionfalità nel momento preciso del loro dissolvimento. Se in ogni modo per queste due creature si era data un'eccezionale avventura umana, per il protagonista di Ordet Ci 955) la vita si è invece preclusa nella goffaggine della follia religiosa. Johannes ha perso il senno leggendo troppo Kierkegaard e crede di essere Gesù Cristo. Solo la fiducia di un bambino che un giorno capisce come sia misteriosamente guarito lo porta alla gloria del miracolo: Johannes ordina in nome di Dio di alzarsi a Inger morta di parto. La donna torna alla vita, il marito ritrova la fede e forse si sedano i due partiti religiosi che esprimevano un'ideologia di clan e la pratica della rissa. E' la sequenza più rischiosa nella storia del cinema contemporaneo. In essa si riafferma la polemica contro l'organizzazione liturgica e si propone un'al¬ ternativa religiosa, sia essa amore o fantasia. Quando viene proiettata, in qualsiasi platea ci si trovi, la tensione non si allenta mai. E ciò nonostante che Ordet, cioè «Il Verbo», si regga tutto su campi medi e movimenti limitati, senza mai una caduta nell'emotività. L'opera di commiato — Gertrud (1964) — comporta alcune lievi novità nello stile dreyeriano: il flashback, l'uso della presa diretta per il sonoro, il pianosequenza. Ancora un conflitto di anime, ancora la figura di un'esclusa, una donna della buona società che abbandona l'influente marito perché non sopporta la morte dell'amore e che all'eros sacrifica le proprie ambizioni, sbagliando e ricadendo nell'errore per generosità. Non è un film che abbia molto circolato e ne sembra opportuna una verifica, a Venezia o altrove. Sono lontane tanto le incomprensioni quanto le esaltazioni (raggiungerebbe la bellezza dell'ultimo Beethoven, approderebbe a un ardito ateismo intinto di religiosità). Cari Th. Dreyer viene condannato dalla vecchiaia, ma in primo luogo dalla cecità della produzione, a un ulteriore disinganno. Non riuscirà a girare l'opera più meditata, il Jesus, quello stesso che in forma teatrale Aldo Trionfo diede allo Stabile di Torino. E' stato un uomo infelice. Nato in Svezia per nascondere una situazione illegittima, ha sofferto dell'assenza del padre e della precoce morte della madre. E' finito in clinica per una sorta di. assimilazione con il suo Vampyr. Non ha goduto di credito finanziario e di libertà creativa. Per campare non s'è vergognato di chiedere allo Stato di lasciargli gestire un cinema, un gesto modestissimo dal valore di simbolo. Si è spento il 20 marzo 1968, alla vigilia di una delle tante false rivoluzioni. Lui che aveva scritto — e dimostrato con opere inarrivabili — un credo assolutamente rivoluzionario: «La realtà deve obbedire al senso estetico dell'autore». Piero Perona «La passione di Giovanna d'Arco»: giudice e accusata, ripresi su piani diversi «Vampyr»: così l'obiettivo di Dreyer scandagliava il volto umano Nina Pens Rode e Cari Th. Dreyer sul set del film «Gertrud», che concluse la carriera del grande regista

Luoghi citati: Svezia, Torino, Venezia