«Voglio solo lavorare!»

«Voglio solo lavorare!» Di nuovo in ufficio l'impiegata che denunciò le «avances» del capo «Voglio solo lavorare!» Luciana Boccia racconta la sua «storia» FROSINONE. Ha sfidato l'indifferenza dei colleghi, ^arroganza di un capo convinto che col potere si può tutto», la solitudine di chi fa una battaglia difficile per difendere la propria dignità contro «consuetudini» di una cultura maschilista dura a morire. Eppure, Luciana Boccia parla della sua esperienza con toni pacati, come se fosse normale avere il coraggio che ha avuto lei, impiegata della Cassa Rurale ed Artigiana di un piccolo paesino della Ciociaria: denunciare al giudice di essere stata licenziata ingiustamente per aver rifiutato le «avances» del suo direttore. Da venerdì scorso è tornata nel suo ufficio, dopo che il pretore ha deciso per la sua riassunzione immediata. Ma non è stato facile varcare la soglia di quella stanza. I suoi timori si sono rivelati fondati. «Mi hanno messa in un angolo, nessuno mi parla, come se fossi un'appestata», dice con amarezza. Non è stato facile convincerla a raccontare la sua storia in cui molte donne possono identificarsi, anche se non sempre nel finale. «Non vorrei leggere, come mi è capitato di vedere su certi giornali, parole tipo "la bella vedova e il capo focoso". Vorrei fosse chiaro che quello che sto vivendo non è per me una barzelletta». Una diffidenza comprensibile, anche perché la vicenda non è' certo conclusa. La sentenza definitiva è attesa solo per il 18 ottobre, ma, soprattutto, il capo «respinto» sembra deciso a tornare all'attacco per farla licenziare: «A me non lo dice, ma la voce mi è già arrivata. Come so che va a dire in giro che sono una puttana, che sono impazzita perché non mi sono preoccupata di mettere a repentaglio l'onore della sua famiglia. Naturalmente alla mia non ci ha mai pensato!». Da vittima ad imputata, capita spesso alle donne. Luciana Boccia ha 36 anni e un figlio di quattordici anni. E' rimasta vedova ancora giovane, il marito è morto tre anni fa. Quando è arrivata alla Cassa Rurale ed Artigiana era già al suo terzo lavoro ed è stato proprio il suo «molestatore» a farla assumere. E si scopre così che Eligio Ruggeri, direttore della «Cassa» di Amaseno nonché sindaco democristiano del piccolo paese di quattromila abitanti, a trenta chilometri da Frosinone, era un amico di famiglia: «Non avrei mai immaginato che si sarebbe poi comportato in quel modo nei miei riguardi». E invece l'amico (è padre di due figlie), continua Luciana Boccia, «ha comincato a darmi fastidio, a farmi pesanti avances, ad insistere perché avessi una relazione con lui nonostante il mio ripetuto rifiuto». La donna parla con un cer- to pudore di questi fatti, fa fatica ad usare parole dai riferimenti troppo chiari. Certo non è facile per lei ricordare. Forse Ruggeri è un capo abituato a mai sentirsi dire un «no», figuriamoci poi da una donna che ha pure aiutato a trovare un ambito posto di lavoro. E così, come racconta Luciana Boccia, incominciano due anni di sottili ricatti e provocazioni: «Qualunque cosa era un pretesto per mettermi in cattiva luce e si sa come è facile quando uno ha in mano in potere: ha sempre ragione lui. Una banale distrazione che chiunque faceva, nel mio caso diventava una tragedia, un terribile segnale d'incompetenza; è riuscito persino ad accusarmi di avergli dato del "figlio di puttana" in inglese portando pure una testimonianza falsa del mio capoufficio; venivo cronometrata quando ero al telefono; pochi minuti di ritardo diven¬ tavano ore e, nonostante mi fermassi a fare lo straordinario ogni volta che c'era bisogno mi faceva passare per una lavativa, una poco disponibile a lavorare...». Un vero inferno. Reggere a questo clima diventa pesante, faticoso. E nel frattempo arrivano anche dal consiglio d'amministrazione delle lettere di ammonimento: «Ho avuto un crollo fisico e il medico mi ha dato qualche giorno di mutua: non c'è la facevo più ad andare al lavoro in quelle condizioni. Ma anche sul certificato medico sono sorti problemi». A quel punto Luciana Boccia capisce anche il gioco, di essere all'anticamera del licenziamento. «Mi sono detta, c'è un limite a tutto». E fiduciosamente si decide a scrivere al consiglio d'amministrazione per rivelare finalmente la sua versione dei fatti, per confessare di essere vittima di ingiusti rimproveri, di ripetuti ricatti, e di un'immeritata fama solo per aver respinto le avances del suo direttore. «Ma per tutta risposta mi è arrivata una lettera di licenziamento in cui mi si spiegava che non esisteva più un rapporto di fiducia. Mi è sembrato che tutto mi crollasse addosso». Dopo la disperazione, la voglia di reagire: «C'è un limite a tutto — ripete quasi con ossessione Luciana Boccia —. Io credo nella libertà di tutti di scegliere la propria vita. Quello che desidero è solo poter avere una vita dignitosa». E il giudice le ha dato ragione: «A differenza del consiglio d'amministrazione, non ha ravvisato nel rapporto del direttore nulla di così grave nei miei confronti che giustificasse il licenziamento». L'esperienza di Luciana Boccia non è una rarità. Secondo dati recenti diffusi dal Parlamento europeo, la percentuale di donne che subiscono ricatti e molestie sessuali sul posto di lavoro è molto elevata in tutti i Paesi della Cee. Ma quante hanno il coraggio di seguire l'esempio di Luciana Boccia? Quante affrontano rischi pesanti, una mentalità in cui il dongiovannismo è ancora visto con benevolenza, sottovalutando le conseguenze di un ciima ostile e offensivo per la dignità di una donna. Stefanella Campana

Luoghi citati: Amaseno, Frosinone