Caro Montesquieu, ci voleva la rivoluzione per rilanciarti di Pier Franco Quaglieni

Caro Montesquieu, ci voleva la rivoluzione per rilanciarti A trecento anni dalla nascita del pensatore francese Caro Montesquieu, ci voleva la rivoluzione per rilanciarti I sistemi politici (e la crisi delle ideologie) a confronto con la Storia G UIDO De Ruggiero osservava nell'Età dell'Illuminismo che Montesquieu esercitò «un dominio quasi incontrasta¬ to fino a quando l'apparizione del Contratto sociale del Rousseau divise gli animi e le fazioni», aggiungendo che «solo dopo le dure esperienze della rivoluzione francese, il pensiero politico tornò con un nuovo senso di comprensione al cauto e moderato liberalismo di Montesquieu». A trecento anni dalla nascita di Montesquieu, che coincidono col bicentenario della Rivoluzione, è interessante riflettere sulla sua opera dopo che tante illusioni sono tramontate e la crisi delle ideologie ci induce a formulare giudizi più cauti. Già il confronto tra Rousseau e Montesquieu ci fa ripensare la cultura politica prima della Rivoluzione, adottando un criterio che si può sintetizzare con un titolo di Franco Venturi: Utopia e riforma nell'Illuminismo. Lo Stato roussoiano — al di là delle utopie — ci appare oggi abbastanza simile al Leviatano di Hobbes, perché finisce di impadronirsi, sia pure in forza del principio democratico, di ogni potere, senza lasciare spazio alla libertà individuale: il Contratto si rivela una concezione democratica e insieme assolutistica, che contiene i germi della democrazia totalitaria. Se pensiamo alle vicende della Rivoluzione francese, madre di tutte le libertà, ma anche delle grandi illibertà moderne, ritorniamo al pensiero illuminato di Montesquieu con un altro angolo di visuale. Certo, ci si può anche domandare se la Rivoluzione che ha sancito la libertà avrebbe potuto farlo senza ricorrere al «terrore», ma resta pur sempre aperto l'ineludibile problema della tragica frattura tra principi e metodi. Le moderne forme di totalitarismo ci rivelano che hanno costretto l'uomo a rientrare nello stato di minorità da cui, secondo Kant, l'Illuminismo avrebbe dovuto essere l'uscita. Visto così, il discorso delle riforme, troppo timide ma saldamente agganciate alla realtà, si pone in termini diversi rispetto alle utopie, spesso generatrici di mostri intolleranti e sanguinari. Nello Spirito delle leggi, Montesquieu, come ha rilevato Mario Bonfantini, «esamina e raffronta le leggi e le istituzioni (...), dimostrandone la relatività, la dipendenza dal clima e dalla situazione geografica, quindi dall'indole degli abitanti, dal grado di sviluppo della civiltà e dalle loro attività predominanti. Donde la deduzione che istituzioni e leggi non possono essere immutabili ed eterne e che non vi sono forme sociali e politiche in sé perfette (...) e che quindi tutte debbono essere via via mutate con l'evoluzione di tali situazioni». Quando si pensa a Montesquieu, si ricorda di lui soprattuto la separazione dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) che pure assume una grande importanza per una concezione liberale dello Stato in cui, per evitare usurpazioni, non dev'essere possibile cumulare la totalità dei tre poteri. Ma forse il nocciolo del pensiero di Montesquieu è quello che Bonfantini ha chiamato «la prima solenne affermazione e razionale applicazione dello storicismo»: non esistono sistemi politici perfetti poiché tutto è soggetto al divenire storico, non ci sono ordinamenti politici validi per tutti i popoli. Come ha osservato Giorgio Spini, Montesquieu rivela «una distaccata serenità scientifica (che) sembra offrire una via di compromesso tra il vecchio e il nuovo, tra esigenza progressi¬ sta e continuità storica, in cui i dati stessi della tradizione secolare — corona, aristocrazia e cattolicesimo — sono considerati come suscettibili di assumere significato positivo in una prospettiva riformistica». Montesquieu — lo Spirito delle leggi uscì 50 anni prima della Rivoluzione — si rivelò troppo ottimista sul cambiamento della monarchia e dell'aristocrazia francesi, arroccate in una sciocca quanto tenace difesa dei propri privilegi. Ludovico Geymonat che ha usato il termine «moderatismo» parlando del pensatore francese, ha scritto che la sua concezione della storia e della politica «ci conduce a comprendere e quindi a giustificare tutte le forme statali costituitesi nel p- cedere della storia», anche se «ciò non significa che non si debba operare per modificarle e migliorarle. Geymonat individua uno dei motivi più interessanti di Montesquieu nella «ricerca di una soluzione per il grande problema dei rapporti tra individuo e stato». Le risposte di Montesquieu ci possono apparire astratte e artificiose, ma il suo atteggiamento nei confronti del dispotismo risulta denso di significato: «Il governo dispotico è quello in cui un sol uomo, senza legge e senza regola dispone ogni cosa con la sua volontà e con i suoi capricci». E ancora: «Il principio del governo dispotico si corrompe senza sosta, poiché è corrotto per sua natura». Una lezione che, trecento anni dopo, risulta viva e che rende Montesquieu, con la sua pacata meditazione, un autentico maestro di libertà e un sincero assertore di quei diritti umani di cui i philosophes settecenteschi furono, in nome della ragione, convinti e coraggiosi difensori. Pier Franco Quaglieni