«Non vogliamo un'altra Seveso»

«Non vogliamo un'altra Seveso» Alessandria: guerra all'inceneritore «Non vogliamo un'altra Seveso» ALESSANDRIA. Con 28 voti a favore e 12 contrari, il Consiglio Comunale di Alessandria ha detto sì all'inceneritore per sostanze tossico-nocive dell'Ansaldo, che dovrebbe sorgere nella zona di S. Michele, atre chilometri dal capoluogo di Provincia. L'approvazione delle due delibere ha provocato reazioni infuocate: emotive, tecniche, giuridiche e, naturalmente, politiche. C'è chi appoggia la piattaforma Ansaldo (Unione Industriali, Associazione Piccole Industrie, pei, psi, cgil, uil, pri e pli), c'è chi vi si oppone (de, psdi, msi, Lega Ambiente, Italia Nostra, Unione Agricoltori, Wwf, Coltivatori Diretti, Confagricoltori, Comitato di Quartiere di S. Michele e i sindaci dei Comuni limitrofi: Quargnento, Solerò, Lu Monferrato, Cuccaro, S. Salvatore, Castelletto Monferrato). Poi ci sono i singoli cittadini che hanno fatto sentire la loro voce, con manifestazioni, raccolta di firme (14 mila) e proteste in Consiglio comunale: non vogliono l'inceneritore vicino a casa, anche se il rifiuto, unanime e fermo, si scontra, in molti casi, con le loro scelte di partito: una provincia tradizionalmente rossa si trova infatti a scontrarsi con le decisioni del vertice comunista e socialista. Le ragioni del «no»? I danni alla salute («non vogliamo una seconda Seveso») ed economici che ne deriverebbero. Il sindaco di Alessandria, Giuseppe Mirabelli, è .invece del tutto convinto della non pericolosità dell'inceneritore: a chi gli proponeva di andare lui ad abitare a San Michele, ha dichiarato la sua disponibilità a trasferirvisi, barattando la sua casa di Mandrogne con una, anche di valore inferiore, a San Michele. Ma la soluzione, evidentemente, non sta nello scaricare al vicino la patata bollente. Essa consiste piuttosto nella valutazione attenta, obiettiva, lucida e possibilmente non politica, ma tecnica, del problema. Cosa che non è stata fatta, neppure dall'assessore all'Ecologia Margherita Bassini. Nel suo intervento, oggetto di vivaci polemiche, ha posto l'accento su tre direttive di fondo: l'inceneritore di S. Michele costituirebbe un'«azione riparatoria», nel senso che elimine rebbe i danni ambientali esi stenti, inoltre sarebbe un atto di protezione dell'ambiente e, infine, un modo di prevenire futuri degradi. Non mia parola sul fatto che il progetto passa sulla testa della gente né una sul fatto che il territorio coinvolge la vita di 120.000 persone. «Nessuno chiude gli occhi di fronte al dato che l'industria produce non solo benessere, ma anche scorie — dice il vicesindaco di Quargnento, Cesare Calcamuggi —. Il fatto è che il problema è stato affrontato in maniera assurda, sia per quanto riguarda la regolamentazione finanziaria, sia per quanto riguarda la scelta logistica del sito. La legge, infatti, doveva essere fatta non come finanziamento pubblico, bensì privato, dell'industriale che si fa carico dei costi per lo smaltimento dei rifiuti prodotti dalla sua industria, che peraltro gli dà utili». Anche Eugenio Torchio, direttore della Federazione Coltivatori Diretti, rileva la gravità della disinformazione: «Una città di circa 100.000 abitanti ed un'area vicina abitata da altre 20.000 persone sono state tenute all'oscuro sulle decisioni che si stavano prendendo circa problemi di così vasta ampiezza». E ricorda, dati alla mano, che l'area di S. Michele produce annualmente 400.000 quintali di grano, altrettanti di mais, quasi il doppio di barbabietole, oltre all'esistenza, su quel territorio, di 300 ettari di terreno coltivati a vigneti e di 10.000 capi bovini. Su quell'area, inoltre, sono attive un migliaio di aziende agricole, che danno lavoro a tremila persone. Per non dire poi, che proprio per S. Michele la Regione stanziò dieci anni fa contributi per un centro agricolo che oggi conta 150 aziende con un fatturato annuo di dieci miliardi di lire. «L'ampliamento della discarica diventa incontrollabile — aggiunge Vladimiro Cenerino, consigliere di Quargnento —, ne abbiamo ogni giorno esempi sotto gli occhi». A questi gravi rilievi di scorrettezza politica fa eco la voce dei tecnici, secondo i quali — sono le parole del professore di chimica analitica dell'università di Torino Luigi Stradella, «la soluzione del problema sta a monte: sviluppare cicli produttivi che minimizzino la produzione di rifiuti biodegradabili o difficilmente smaltibili». Un esempio? Le fabbriche americane Dupont, Westinghouse, Exon, Borden, M3, Emerson stanno avviandosi verso questa svolta tecnologica. Luisa Ricaldone