Nel regno del gattopardo rosso

Nel regno del gattopardo rosso Jivkov regna sulla Bulgaria da 33 anni: ha resistito a tutte le bufere del socialismo Nel regno del gattopardo rosso Un po' di perestrojka per non cambiare nulla RUSE DAL NOSTRO INVIATO Dove finisce l'Europa? Nel primo Novecento finiva laggiù in fondo al Danubio, molto a Nord di Ruse, e come ha raccontato Elias Canetti, che a Ruse è nato, chi risaliva il fiume verso Vienna «andava in Europa». Eppure anche nel tempo di Canetti questa cittadina bulgara aveva l'«aria familiare di Mitteleuropa solida e operosa» che Claudio Magris ha ritrovate pochi anni fa. Ma l'architettura danubiana di Ruse, come i legami deH'intellighentja romena con Parigi, o i teatri di Sofia dove in questi giorni sono in cartellone Ionesco e Peter Weiss, anche adesso non fanno compiutamente Europa. L'Europa «politica» finisce ancora molto a Nord di Ruse, là dove comincia il parco archeologico delle ultime monarchie assolute: la Serbia di Slobodan Milosevic, incoronato in giugno dal patriarca ortodossso e da mezzo milione di nazionalisti nell'anniversario di un'epica battaglia contro i turchi; la Romania di Nicolae Ceausescu, sul trono dal '65; la Bulgaria di Todor Jivkov, zar del suo popolo dal '56, perciò recordman di resistenza tra le gerontocrazie comuniste. Reami molto diversi. Ma tutti si stagliano sulle rovine del socialismo reale per una concezione orientale del potere, personalistico e illimitato, che si autolegittima con l'alibi di un legato storico, di una missione nazionale da compiere. La revanche granserba per Milosevic. L'apoteosi della vessata «civiltà romena» per Ceausescu. La resurrezione della Bulgaria, dissepolta dai russi da cinque secoli di dominazione ottomana, per Jivkov. Ruse ha tentato di sottrarsi a questa singolarità balcanica in nome della glasnost, e in nome della glasnost è stata zittita da Jivkov. Era il settembre 1987, ormai da mesi nuvolette bluastre attraversavano di tanto in tanto il Danubio dalla romena Giurgiu e aggredivano a tradì mento i duecentomila abitanti di Ruse, infliggendo dermatiti, congiuntiviti, spasmi, tossi. Poi sparivano nel vento, lasciando si alle spalle una città tappata in casa, e sempre più irata. Così, malgrado il boiaro del partito garantisse che tutto era regolare, cominciarono le prime manifestazioni spontanee. Madri che gridavano in corteo: «Aria pulita!», «No al cloro!». Poiché nel frattempo Jivkov aveva inaugurato la perestroj ka bulgara, l'intellighentja si sentì autorizzata ad interveni re. Prima una grande mostra ecologica a Ruse, poi l'assem blea di un migliaio di intellettuali a Sofia. E periodici culturali come Narodna Kultura e Literaturen Front che rompendo il silenzio della stampa ufficiale appoggiavano la causa di Ruse. Una battaglia ecologica stava diventando un fiducioso esercì zio di glasnost, anche nel parti to. E anzi proprio un membro del comitato centrale, Svetlih Rusev, presidente dell'Unione degli artisti, era diventato l'araldo della protesta. Con il felice intuito che gli ha permesso di governare la Bulgaria per 33 dei suoi 78 anni, Jivkov comprese subito il rischio di un'epidemia di pluralismo. Se la società cominciava a discutere, il monolite del comu- . nismo bulgaro si sarebbe spaccato. Tuttavia la glasnost è merce d'importazione sovietica, perciò ottima per principio agli occhi del comunismo bulgaro, che da quarant'anni lega la sudditanza ideologica a Mosca ai sentimenti nazionali di riconoscenza verso i russi, «due volte liberatori» (dal giogo della Sublime Porta, nel 1878, e dal nazifascismo, nel '45). Jivkov si cavò dall'impaccio decapitando il comitato di difesa di Ruse con la scure della glasnost. Nella primavera scorsa, attaccò frontalmente il vertice dell'Unione degli artisti, accusandolo di rappresentare, per favoritismi e oscure manovre, il nemico della «trasparenza». Per il resto l'elogio della glasnost, pubblicata dal partito in un libricino di 120 pagine, conteneva tanti di quei richiami alla disciplina di partito, da non lasciare dubbi: nulla sarebbe cambiato. Ad un anno da quel discorso, oppositori e gorbacioviani troppo spinti hanno pagato con arresti o siluramenti la colpa di aver creduto che la glasnost bulgara fosse effettiva. Il comitato di Ruse non esiste più, Svetlin Rusev ha perso le sue cariche. Adesso nel suo atelier di Sofia, dove siamo andati a trovarlo, fa capire che di politica per il momento non vuole discutere. «Parlo con i miei quadri». Un paesaggio rosso sangue («Il colore dell'ira», sussurra una sua assistente). Un volto drammatico, spezzato da una riga rossa che lo attraversa come una crepa. Una figura femminile, dolente e prostrata: «L'attesa». L'attesa in Bulgaria è già cominciata. Jivkov, che è stato stalinista, kruscioviano, brezneviano, andropoviano, e adesso si finge gorbacioviano, non si lascerà processare dal partito: ha intenzione di morire da monarca, non da re spodestato e umiliato come Kadar, anch'egli salito al potere nel '56. Ma i suoi 78 anni dicono che quel funerale non può essere lontano. E nel partito la fronda si va organizzando e flirta con la sua sponda semiclandestina, -il «Glasnost Club», un circolo che raccoglie intellettuali del partito molto vicini a quadri alti della Nomenklatura e si sente già abbastanza forte per uscire allo scoperto con un «Manifesto» che è un atto di sfida. Il documento, inedito in Occidente, mette sotto accusa proprio il carattere non europeo del regime. Si legge infatti al primo punto: «La Bulgaria è parte integrante dell'interezza economica e culturale del continente europeo, per cui qualsiasi politica di isolazionismo rispetto agli altri Paesi europei è contraria agli interessi nazionali del popolo bulgaro». E al punto 2: «La Bulgaria può con pari dignità far parte dei popoli europei solo come Stato di diritto». Si formulano richieste elementari: libertà di opinione, abolizione dell'elenco dei libri «proibiti» nelle biblioteche, diritto di associazione, accesso alle informazioni non coperte da segreto militare, discussione pubblica sulle riforme costituzionali. Il rischio che il circolo rappresenta pei il monolitismo bulgaro è testimoniato dall'astio con cui se ne parla nelle stanze di Rabotnichesco Delo, il giornale del partito. «Il Glasnost Club? Artisti mediocri, poeti pornografi, carrieristi, criticoni. E poi sono in contatto con radio Free Europe. Sì, lo sappiamo, c'è anche gente del partito». Per difendere il centralismo assoluto del potere, l'editorialista Ghencho Bashnakov ripropone il vecchio alibi della storia irrisolta: «Cinque secoli di dominazione turca hanno inculcato al Paese lo stereotipo del ' centralismo feudale. L'ingresso in una forma di democrazia non può che passare per una fase transitoria, di rigido centralismo e di forte unificazione nazionale, che oggi sono anche le condizioni perché la nostra perestrojka funzioni». Ciò che Jivkov propone invece al Paese è la riedizione del vecchio patto kadarista: fate soldi, compratevi la Lada o lo stereo, ma state lontani dalla politica; quello è affare mio. Così la «perestrojka» apre al privato, sollecita joint ventures, incita i singoli all'iniziativa. Impiegati e operai diventano al tramonto tassisti privati. I più furbi già esibiscono auto occidentali, frutto di vasti traffici. Ma per chi cerca di copiare dall'Europa non solo il consumismo, ma anche il pluralismo, c'è ancora la galera. Guido Rampoldi Abbraccio tra Breznev e Jivkov: nell'impero del socialismo reale gli scomodi tempi della perestrojka erano ancora lontani