«Sono un morto che cammina» di Lorenzo Del Boca

«Sono un morto che cammina» A colloquio nel nascondiglio segreto di Antonino Saia, superpentito dei catanesi «Sono un morto che cammina» E' certo: «Mi troveranno e mi faranno pagare» Prima era «baddega»: la palla. Ognuno del «clan» aveva il suo soprannome che, anche nell'ironia, serviva per dare spessore alla complicità. Adesso è un infame, uno dei tanti che hanno parlato, «lingua scucita». Antonino Saia — con Salvatore Parisi, Ciccio Miano, Vincenzo Tornatore — ha accusato e si è accusato, ha raccontato la storia della mafia catanese, è stato condannato a 19 anni ed è in libertà provvisoria. Abita in un condominio, in mezzo ad altra gente ma si sente «un morto che cammina». Non ha dubbi: lo troveranno ed è certo che i suoi amici di una volta gliela faranno pagare. La legge dell'onorata società punisce chi sgarra e lui, per quella legge, ha sgarrato. Nostalgia della vita di prima? No, quello no. Antonino Saia al suo pentimento ci è arrivato da solo, passo dopo passo, meditando e riflettendo. Era difeso dall'avvocato Alfredo Paola prima e Alfredo Paola ha conservato anche >*rr* > Quando ha parlato con i magistrati lo ha fatto perché era convinto. «Gentiluomini i magistrati di Torino — dice —. Non mi hanno mai forzato la mano». Mi certo, adesso, il peso di quella d. visione si fa sentire. Da ragazzo, condannato in Sicilia, era finito in soggiorno obbligato in Liguria, dove ha incontrato Roberto Miano, che era già un pezzo grosso della mala torinese. «Vieni con noi». E' arrivato a Collegno. Un al- loggio per la famiglia che vedeva quando poteva e uno per sé dove sndava e veniva senza problemi. «Ero latitante ma potevo girare senza troppe precauzioni». Una volta l'hanno fermato in Corso Giulio Cesare. Era in moto e agli agenti ha mostrato una patente falsa. Quel documento non convinceva il capopattuglia che ha deciso: «Noi andiamo avanti in auto e lei ci segua in Questura». Come in una gag di Drive in: i poliziotti da una parte e lui dall'altra. Ma per il resto le giornate erano sicure, piene di abitudini e di certezze. Gli uomini del clan si incontravano al bar di via Pisa. Di giorno giocavano a biliardo e di notte s'infilavano in un night. Cosa c'era da festeggiare? «Era sempre festa». Ogni due o tre settimane c'era da lavorare. Per provarlo, Antonino Saia, è stato mandato ad ammazzare Mario Siani e Riccardo Rosalia. Non li conosceva e ha dovuto farsi accompagnare da Giuffrida che glieli ha indicati. Risultato soddisfacente: hanno cominciato a parlare bene di lui e ad assegnargli altri incarichi finché si è trovato a rispondere di 11 omicidi fra quelli commessi di persona e quelli cui ha parteepato in qualche modo. «E' una vita piena di soldi e di automobili, di vacanze in Versilia e di abiti da sartoria». Non ha risparmiato una lira in quegli anni. Il denaro gli usciva dalle tasche. Aveva comprato una Saab e una Volvo, teneva in garage due moto giapponesi e non contava quante bottiglie di champagne gli mettevano sul conto. «Certo quando ho deciso di parlare mi sono preparato a tirare la cinghia». Non gli pesano le rinunce ma gli rincresce che la moglie debba andare in fabbrica per mantenerlo. Prima «stava a casa come una regina» ma da un giorno all'altro ha dovuto imparare a lavorare. I due figli non avevano che da chiedere per avere, ma adesso devono cambiare scuola tutti gli anni e ogni volta presentarsi con un nome falso. Credono che il papà abbia fatto il ferroviere. «Dio solo sa quanto mi piacerebbe farlo davvero...». E' grande il desiderio di normalità. Ha frequentato le scuo- le medie, ha fatto il garzone di macellaio e sa che non può pretendere di fare tanto di più. «Il muratore, in miniere o l'uomo di fatica. Qualunque cosa che permetta di ricostruire un'immagine da galantuomo». Non è impossibile: basterebbe che il Parlamento approvasse la legge sui «pentiti» in modo da consentirgli di andare all'estero con un passaporto «coperto» e un altro nome. Ma anche Antonino Saia si rende conto che quel progetto — da due anni nei cassetti del Parlamento — non diventerà definitivo troppo presto. E allora sta chiuso in casa, non vsde nessuno e non esce che per lo stretto necessario, non telefona e non si fa telefonare. Dovrà cambiare indirizzo di frequente. Precauzioni doverose ma quanto utili? «Mi troveranno — è certo — se vogliono...». Lui che ha campato di pistola non è armato e non potrà difendersi. «Ma con loro non c'è difesa». Dai giornali vede che l'escalation dei morti continua. Lui è fuori dal giro e non capisce bene chi sono e come sono schierati i soldati di questa nuova guerra. Ma le regole del gioco non cambiano. Sembra un paradosso. «Sono stato ricercato e potevo muovermi come volevo, adesso sono libero e devo guardarmi in gito». Aspetta che qualcuno gli spari e ricorda le storie che ha vissuto. Quando hanno ammazzato un poveraccio saltan¬ dogli con il tacco delle scarpe sulla gola. O quando hanno sventrato con il manico della scopa uno che aveva nascosto il bottino di una rapina. Non poteva bastare una rivoltellata. Ogni delitto doveva essere anche un avvertimento per gli altri. Le vittime andavano sfigurate a colpi di mattone, bruciate, soffocate, sgozzate come non si usa nemmeno con i maiali. Il riorto doveva spaventare i vivi. «Per me — assicura — non ho paura. Ho paura per la mia famiglia». Al padre hanno sparato tre rivoltellate in testa mentre era in auto: è vivo per miracolo. «Una volta non si toccavano vecchi, donne e bambini, adesso quel rispetto non c'è più». Lorenzo Del Boca L'aula-bunker delle Vallette dove s'è svolto il processo ai «catanesi» ti pentito Antonino Saia (di spalle) durante il processo

Luoghi citati: Collegno, Liguria, Sicilia, Torino