La porta in faccia ai malati d'Aids

La porta in faccia ai malati d'Aids L'odissea di una giovane coppia in cerca di cure per i denti. Respinti da tre ospedali La porta in faccia ai malati d'Aids «E all'Amedeo di Savoia circolano spacciatori di droga» «Sono stata in tre ospedali a cercare di farmi curare un dente. La faccia era jonfia come un melone, si vedeva di lontano che stavo malissimo. M'. presentavo e ripetevo: "Guardate che sono sieropositiva all'Hiv". Mi sembrava giusto avvertirli. Ma ogni volta mi rispedivano indietro: al Mauriziano e alle Molinette rispondendo che erano in grado di far solo estrazioni, mentre al Maria Vittoria un medico si è ridotto a dire che in pronto soccorso non esisteva il 'materiale" per intervenire». Così lei, 23 anni, impiegata. Il marito: «Al Maria Vittoria sono stato sul punto di scoppiare. L'ho presa per un braccio e l'ho portata via. Avevo anche avuto la tentazione di mettere le mani addosso a quell'ultimo dottore. Che ci aveva preso pure per i fondelli. Ma lo immagini uno nelle mie condizioni che ferisce un altro? E poi avrei ottenuto qualcosa per lei? Ci vorrebbe un Kalashnikov... Tu dici che esiste una legge, quale legge? Io non la Vedo e non la sento, so soltanto che ti sbattono le porte in faccia e buonanotte, come quando mi licenziarono perché, avendo fatto gli esami, si era scoperto che mi ero ammalato. Da un ospedale mi hanno licenziato». Anche lui ha 23 anni, e da undici mesi sa di «avere l'Aids». Lei lo aveva sposato un anno prima: «Stiamo insieme fin da ragazzini». Hanno diviso tutto, dagli spinelli all'eroina, sino a quest'ultimo enorme problema. «Lo scorso inverno — racconta lei — ero in comunità giù nel Sud. Lo sapevo fuori di casa sua, cacciato per l'ennesima volta in strada, e sono tornata a Torino, per rimanergli vicina. Tieni conto che in estate si era ridotto a pesare meno di trenta chili. Da sei anni i suoi genitori continuavano a non volere accorgersi che avevano un figlio tossicodipendente. Un anno fa non era più possibile non vedere. Avevo accumulato dentro di me tanta rabbia e quella volta l'ho scaricata tutta contro sua madre». «Sono stati fatti gli esami ed è saltato fuori che lui aveva l'Aids — continua —. "Prega figlio mio, non resta altro che pregare", ha cominciato a ripetere la madre da allora. So di essere dura. E se rifletto capisco anche che il suo è l'atteggiamento di una donna prosciugata di tutto. Noi non ci siamo mai messi dalla parte dei nostri genitori, né loro dalla nostra. Io ho continuato a vedere i miei vergognarsi con tutto il vicinato di avere una figlia tossicodipendente. "Come? In ospedale hai detto ad alta voce che sei sieropositiva?" è stato tutto quel che mia madre ha saputo dire sulla mia via crucis alla ricerca di un dentista. I vicini non sono da meno. Non vogliono vedere quel che succede in casa loro: ad una signora sono stata io a rivelare che suo figlio si bucava. Ha risposto che non era proprio possibile. "Tu sei tossicodipendente, non il mio ragazzo"». Nelle parole del marito ricorre ossessivamente il riferimento alla sua «generazione», ma come se si trattasse di un'età lontana. «Mi sembra di aver vissuto molto, e tanto in fretta. A 11 anni bevevo, a 13 mi facevo di spinelli, a 16 ho cominciato a...» indica con l'indice la vena dell'altro braccio disteso per sottolineare col gesto le parole. «Da quando ho saputo dell'Aids ho smesso. Ma sono stato uno dei pochi: il tossico che s'accorge di essersi beccato il virus torna a casa e non sta certo a preoccuparsi di non bucare più. Puoi immaginare perché. C'è anche una teoria: finché con l'eroina fai star bene il virus, quello se la spassa e non ti ammazza. Sì, è une gran stronzata. Lo so da me. Guarda mia moglie, si è tenuta ed è rimasta sieropositiva». Lei ha finito per seguirlo un'altra volta in strada. E lui racconta: «Una notte abbiamo anche provato a fermarci a Porta Nuova nella sala d'attesa di seconda classe. Dieci minuti e siamo scappati. Noi eravamo a terra, ma quel posto era pieno di gente molto più fuori di testa di noi. Credimi, un po' come all'Amedeo di Savoia, dove gli spacciatori circolano nei corridoi e tu, la sera, devi barricarti in camera per non ritrovarti nel letto ragazze che nessuno vuole più prendersi. Loro insistono: Tanto l'Aids ce l'hai anche tu". Da fuori non veniva quasi nessuno a trovare i ricoverati, se non certi volontari, qualche parente. Ho sempre e soltanto incontrato gente sola e sperduta». Lei ha ripreso a lavorare, hanno cercato e trovato una mansarda «solo perché ci siamo presentati con i soldi. Ci hanno chiesto 400 mila lire al mese e gliele abbiamo date». Sembra uno stelo, ma di un metallo che non si piega. Forse ha smesso per lui prima che per sé, così come per lui aveva cominciato e si è trovata a questo punto. «Non abbiamo mai fatto ciocchi, mai spacciato né rubato. Alla fine ho lavorato anche in birreria, 30 mila lire a sera, e dopo si andava a comprare uno schizzo per tutti e due. Non ci restava niente per vivere. Chiesi aiuto a mia madre quando seppero che ero sieropositiva e mi licenziarono. "Non ne posso più", le dissi. Non avevo nemmeno più fiato per pronunciare le parole». Ci eravamo incontrati perché si denunciasse la sua via crucis da un ospedale all'altro, martedì scorso. Si è finito per parlare di tutto il resto. Lui si era presentato con la «maschera» del burlone, per nascondersi. Poi ha cercato di stupirmi. Poi ancora è diventato semplicemente un uomo che si raccontava con dignità. Lei è sempre stata se stessa, ma solo alla fine, dopo ore trascorse ad ascoltarli, quel «se stessa» ha assunto un significato pieno. Alberto Gaino L'interno dell'ospedale per la malattie infettive «Amedeo di Savoia»

Persone citate: Alberto Gaino, Amedeo Di Savoia, Chiesi

Luoghi citati: Torino