Intifada, strage di «traditori» di F. A.

Intifada, strage di «traditori» Più di 100 i collaborazionisti trucidati Intifada, strage di «traditori» IIDA1LI i ■<IIMnHllWII>ll(iWMMÉ GERUSALEMME NOSTRO SERVIZIO Dapprima si riceve un avvertimento dattiloscritto nella casella postale o infilato sotto la porta; poi è la volta delle visite notturne di giovani col volto coperto da «keffyeh»; quindi sui muri del quartiere compaiono scritte ostili firmate dall'UE sercito popolare palestinese», con il nome del «traditore» e la lista dei suoi misfatti. A questo punto costui è completamente isolato, nessun vicino accetta più nemmeno di salire a bordo della sua automobile. Il terreno adesso comincia davvero a scottare sotto i piedi e restano soltanto tre possibilità: fare un pubblico atto di contrizione, abbandonare immediatamente la propria abitazione o esporsi al rischio di essere aggrediti e uccisi. A Jamal Khatib Ata, 30 anni, non è stata concessa alcuna opportunità di recitare un «mea culpa». Sabato scorso alcuni giovani col volto coperto lo hanno prelevato dalla scuola del villaggio di Bidya in cui insegnava e hanno cercato di trascinarlo in una vicina vallata. Il maestro ha opposto resistenza, ha provato disperatamente a fuggire. Gli aggressori lo hanno raggiunto nel cortile della scuola e lo hanno massacrato, davanti agli occhi inorriditi degli allievi, a colpi di coltello e di scure. «Jamal era stato ope.-ato al cuore e non faceva politica», ha detto la giovane vedova. «Non aveva ricevuto alcun avvertimento dell'Intifada», ha aggiunto un vicino, «mai gli avevano lanciato sassi contro la casa o inviato moniti». Sono quasi cento i palestinesi, presunti collaborazionisti, uccisi dai loro connazionali dall'inizio dell'Intifada nel dicembre 1987. Molti altri sono stati aggrediti, seviziati, minacciati o costretti a cercare un precario rifugio presso parenti, Suando non addirittura in inseiamenti ebraici. Per i collaborazionisti non vi è salvezza nemmmeno dentro i campi di detenzione israeliani: a Ketzhot, nel deserto del Negev, ne sono stati già uccisi undici. Le statistiche mostrano un'impennata a partire dalla fine di aprile di quest'anno: ormai le «esecuzioni» sono divenute quasi quotidiane. «La rivoluzione palestinese ha dieci pallottole — è stato scritto in una strada di Nablus — nove sono per i collaborazio¬ nisti, la decima per il nemico sionista». La vittima più recente è il capo villaggio di Kafr Lakif, presso Tulkarem, assassinato l'altra notte in un agguato tesogli da tre persone col volto coperto. Era sulla porta di casa, quando lo ha investito una raffica di mitra: centrato da 14 proiettili, è morto durante il trasporto all'ospedale di Betlemme. A Nablus i soldati israeliani hanno scoperto di recente un locale usato dai membri dei «Comitati d'urto» per interro- f;ar<; indisturbati presunti colaborazionisti. Vi sono stati rinvenuti coltelli, accette, chiazze di sangue. Secondo fonti palestinesi un locale simile sarebbe tuttora in funzione nella «casbah» della città. Nonostante la sistematica raccolta d'informazioni sulle abitudini dei collaborazionisti, i membri dei «comitati d'urto» hanno commesso anche tragici errori. Di quando in quando qualche vittima viene riabilitata con volantini diffusi nella zona in cui abitava ed elevata al grado di «shahid», ossia di «martire» dell'Intifada. Adesso però le dimensioni delle esecuzioni hanno suscitato apprensione nello stesso comando clandestino della rivolta. In una rara autocritica il comunicato numero 44 dell'Intifada, diffuso martedì scorso in Cisgiordania e a Gaza, ordina di «non liquidare collaborazionisti senza che sia stato ottenuto in proposito un consenso nazionale, senza che siano stati avvertiti e che sia stato consentito loro di fare un atto di contrizione». Un simile appello è stato lanciato anche da Faisal Hussein, uno degli esponenti palestinesi più ascoltati nei terrrit ori occupati. Ma il termine di collaborazionista rimane tuttora molto vago, spaziando da chi fornisce informazioni ai servizi di sicurezza israeliani fino a quanti infrangono uno sciopero per andare a lavorare in Israele. Minacce di morte sono giunte perfino a Jamil Tarifi, l'avvocato filo-Olp di El Bireh, che si è incontrato con il premier Yitzhak Shamir per discutere del progetto israeliano di elezioni nei territori occupati. Nonostante la sua buona fede sia stata subito confermata dai principali esponenti politici della Cisgiordania, l'avvocato ha preferito prendersi un'improvvisa vacanza e recarsi a Londra, [f. a.]

Persone citate: Jamal Khatib Ata, Jamil Tarifi, Yitzhak Shamir

Luoghi citati: Cisgiordania, El Bireh, Gaza, Gerusalemme, Israele, Londra