TIRO AL «CORVO» E LA MAFIA RIDE di Paolo Mieli

TIRO AL «CORVO» E LA MAFIA RIDE I misteri e le faide di Palermo TIRO AL «CORVO» E LA MAFIA RIDE PROBABILMENTE il presidente della corte d'appello di Palermo, Carmelo Conti, ha ragione: è giunta l'ora che il giudice Alberto Di Pisa esca, almeno provvisoriamente, di scena. Il sospetto che Di Pisa sia stato travolto da una macchinazione resta; ma, pur prendendo in considerazione l'ipotesi che Di Pisa sia stato vittima di un complotto, ci si deve arrendere di fronte alla constatazione che chi gliel'ha tirata ha architettato un buon piano, tutto giocato sui pregiudizi che da anni proprio nel suo ambiente di lavoro si erano accumulati contro di lui, ed è riuscito a metterlo con le spalle al muro. Gli indizi che 10 inchiodano ci sono. Pesano. Scalfiscono la sua credibilità. E il mestiere che Di Pisa ha scelto, in prima linea contro la mafia per conto dello Stato, non si può svolgere in condizioni di credibilità dimezzata. Ciò detto, va sollevato un dubbio sull'opportunità che 11 presidente di corte d'appello per metterlo alla porta scelga la via delle interviste ai giornali. Anzi, il dubbio va esteso a tutto il modo poco responsabile con il quale i colleghi di Di Pisa hanno gestito attraverso i media l'intero «affaire corvo». A cominciare dallo stesso Carmelo Conti, che un mese fa, quando ancora non si era in presenza di esami delle impronte digitali certi e giuridicamente validi, annunciò l'avvenuta identificazione del «calunniatore» e si spinse addirittura a dichiarare che il suo nome sarebbe stato reso noto «solo dopo la formazione del nuovo governo per evitare effetti destabilizzanti». Per continuare con la incredibile gara dei giudici siciliani che fino a quel momento avevano lavorato gomito a gomito con Di Pisa nell'«aiutare» i cronisti a ricostruire la sua storia di «anonimista» (e altro) sulla base di maldicenze, pettegolezzi, dicerie. E per finire, con quel modo dei magistrati di utilizzare i giornali: per metà soffiate coperte dall'anonimato e per l'al¬ tra metà frasi velate, allusive. Ha avuto ragione il procuratore aggiunto di Palermo Pietro Giammanco — che pure era stato, assieme a Giovanni Falcone e Giuseppe Ayala, uno dei bersagli delle lettere anonime — ad indignarsi, in una delle prime battute di questa vicenda, che Di Pisa fosse stato, scientemente e a dispetto d'ogni garanzia costituzionale o presunzione d'innocenza, infilato in un «tritacarne». E mentre si procedeva alla pubblica triturazione di Di Pisa, sullo sfonde si scatenava la guerra tra Sica e Falcone, riedizione del non troppo dissimile conflitto tra Meli e 10 stesso Falcone che si produsse l'estate scorsa con tanto di reciproche frecciate al curaro e pseudo-riappacificazioni davanti ai riflettori della televisione. Il tutto accompagnato dell'ormai consueta manipolazione delle notizie, ad opera di magistrati o comunque di autorità dello Stato preposte alla lotta contro la mafia, volta a denigrare questo o quel collega, ad insinuare che per mania di grandezza o di potere, quando non addirittura per collusione con il nemico, 11 suo operato è d'intralcio alla lotta contro la malavita organizzata. E' uno spettacolo mortificante. Che è imputabile più che alla personalità dei singoli giudici in questione, al diffondersi anche tra di loro di modelli culturali importati dalla classe politica, per i quali i magistrati curano la crescita della propria immagine, la propria carriera, perseguono il proprio successo esattamente come gli uomini di partito: legandosi l'un l'altro (ma anche con politici e giornalisti) in gruppi trasversali, usando i giornali per ostacolare e bruciare i rivali, rilasciando interviste su interviste, comparendo in televisione. Apparire, essere un personaggio diventa più importante che operare. E la lotta alla mafia viene seconda. Paolo Mieli

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