Massaja missionario indomabile

Massaja missionario indomabile Cent'anni fa moriva il cardinale: confessò il re, Pellico, il Cottolengo Massaja missionario indomabile Sarà fatto santo? Molti lo aspettano OTTO traversate del Mediterraneo, dodici del Mar Rosso, quattro viaggi in Terra Santa, quattro tentativi d'entrare, travestito da mercante, nell'acrocoro dell'Etiopia dal Mar Rosso, dal Sudan e dal Golfo di Aden; quattro esìli, quattro prigionie, diciotto rischi di morte. Sono i momenti salienti dei 35 anni di vita trascorsa in Etiopia dal più grande missionario cattolico dcU'800, 11 cappuccino piemontese Guglielmo Massaja. La sua avventura africana fa pensare alle peripezie dell'apostolo Paolo. Ma Massaia santo non è stato ancora dichiarato. Nato a Piova d'Asti 1*0 giugno 1809, muore a San Giorgio a Cremano, presso Napoli, il 6 agosto 1889. Per raggiungere il territorio dei Galla, nell'Alta Abissinia, impiega sei anni. Docente di Teologia, è anche medico, architetto, geografo, etnologo, vivacissimo scrittore. Quando, esiliato dall'imperatore abissino Joannes IV, torna in Italia c Leone XIII lo riceve in udienza, ha l'ordine di raccontare dettagliatamente la propria espe rienza. Si mette a scriverla anche dieci ore, giorno e notte. L'opera, / miei 35 anni di mis sione dell'Alta Etiopia, occupa 12 volumi, un classico della letteratura missionaria moderna. Massaja vi si rivela fedele al Vangelo quanto all'uomo. La sua missione è l'annuncio del Vangelo mai diviso dalla promozione umana. Un giorno riesce persino a fare un trapianto d'organo su un malato. Durante la grande epidemia di vaiolo che sterminò gli abissini, si prodiga con grande dedizione e pari rigore scientifico, iniettando il vaccino che lui stesso s'è portato dall'Europa. Cura servendosi d'un rudimentale ago da imballaggio, che umetta ogni volta con la propria saliva, per cui tutti credono che la vera medicina sia proprio la sua saliva. In quindici giorni nel villag gio di Gombò vaccina più di mille abitanti, e a Giani raggiunge la media di 120 pazienti al giorno. Il capo del villaggio non ha dubbi: «Quest'uomo è stato mandato da Dio e persino il suo sputo è d'oro», e lo bacia sulla bocca. Rischia più volte la vita. Ras Kassà, fattosi incoronare come Negus Neghesti col nome di Teodoro II, sospetta di questo straniero benefico come uno stregone. Mentre Massaja ne attraversa il territorio, viene catturato, spogliato e lasciato per alcuni giorni, a oltre 2000 metri d'altezza, legato a un compagno di prigionia. Mentre sta per comparire davanti all'imperatore ode gli urli di terrore dei condannati a morte. Ma dopo che lo ha ascoltato per alcuni minuti, Teodoro afferma: «Sappiate che oggi, per la prima volta, Teodoro si dichiara vinto da un monaco e presto lo dimostrerà coi fatti». Lo spirito benefico Massaja è subito onorato come un mago e un benefattore. Al suo compagno di pena viene data in moglie una cugina dell'imperatore, c Massaja deve benedirne le nozze. Comincia così la sua fama di santo, di «spirito benefico»; crescono sia la venerazione del popolo che i sospetti e la gelosia del potere religioso locale. Da frate, a Torino, nel convento di Santa Maria di Campagna, Massaja è stato confessore di Silvio Pellico, e anche d'un santo come il Cottolengo, e del futuro Vittorio Emanuele II. Sa tener testa a re e imperatori. In Abissinia, fra gli amati Galla, Massaja si fa anche operatore culturale. Trascrive in lingua locale, con caratteri latini, la grammatica Galla, fino a quel momento solo parlata. Ma la gelosia de) metropolita copto Abba Selàma riesce a farlo allontanare dal Galla. Il dolore degli indigeni è totale. «Abuna Messias», come 10 chiamano tutti, è per loro non solo un missionario che parla di Cristo, ma anche un padre e un amico che agisce, cura, istruisce e diverte. Può scrivere infatti di sé all'amico Aminori, membro della grande Spedizione Geografica Italiana: «Tolto Cristo, io per il primo diventerei una bestia feroce insoffribile». Denunzia le gelosie feroci fra le religioni, ma anche fra i membri della stessa Spedizione Geografica: «La questione che più mi affligge è il disaccordo fra voi e i compagni, perché finisce per disonorarci tutti e farci perdere il poco ascendente che ancora ci restava, sia sopra 11 re, sia sopra la popolazione». Non è mai un evangelizzatore «colonialista»; non entra mai del tutto nei disegni dell'Italia umbertina che vive in quegli anni i suoi primi sogni colonialisti. Anche se, proprio come missionario e medico che si guadagna la riconoscenza di tutti, cerca d'essere «africano con gli africani», e rende così, da solo, credibile l'Italia, benché sia una potenza occupante. Consacrato vescovo a Roma il 24 maggio 1846, in Etiopia gli sta a cuore soprattutto la cura e la difesa dei poveri, l'istruzione dei bambini e degli adulti. Compone lui stesso il primo catechismo Galla e Kaffa. Ma il sostegno più efficace alla sua azione religiosa è dato, presso la povera gente, a causa della sua perizia umana di medico e organizzatore; per la lotta al vaiolo, che riesce quasi a far scomparire nel Paese, viene definito «il padre del Fantatà» (come chiamano il vaiolo). Il suo slogan è: «Educare l'Africa con l'Africa». Per questo crea un seminario ambulante, per seminaristi e monaci, smette l'abito del mercante, veste il saio cappuccino, ma non mette mai nulla ai piedi, viaggiando anche per i sentieri più pericolosi e disagevoli, per quindici anni, senza sandali. Come vescovo, nei riti solenni usa il «pastorale». Ma nella vita usa, anche per sostegno, soltanto un robusto bastone di legno di cedro del Libano, con l'impugnatura ricavata dalla radice di un ulivo del Gethsemani. Con avvedutezza politica, il governo italiano nomina quel francescano verace e indomabile «ministro plenipotenziario» per la firma del trattato italo-abissino di «amicizia e commercio» fra l'Italia e lo Stato etiope dello Scioa, nel 1879. In Abissinia nel frattempo Massaja è diventato il consigliere più ascoltato dagli esploratori e dallo stesso imperatore Menelik II. Tra capanne e raccolti Pochi sanno che anche la nuova capitale dell' Abissi nia ha la sua matrice nell'intuizione del Massaja. «Abuna Messias», nel 1868 fonda una colonia agricola nel Nord del Paese, a Fin f'inni, in una zona ricca d'acqua e ben ventilata. Crescono le capanne e i raccolti, il posto è sempre più accogliente. Tanto che nel 1887 la regina Taitù convince Menelik a trasferirvi la capitale. Nasce Addis Abeba, che significa Nuovo Fiore. Il prestigio e l'affetto di tutti per l'anziano «abuna» crescono sempre più. Gli indigeni dello Scioa, vedendo il suo «pastorale» o lui, anche da lontano, si mettono subito a ballare festosi l'ilta, la loro danza tipica, e gridano: «Ecco Abba Messias». Il mito lo circonda, anche se sente i primi morsi dell'angina pectoris e altri malanni. Non ha però abbandonato nessuno, e nessuno di coloro che lo stimano, in Abissinia, in Europa, in Italia, 10 abbandona. Il suo epistolario, una straordinaria autobiografia indiretta di francescano contemporaneo, insieme con i volumi della sua storia missionaria, lo colloca accanto ai grandi viaggiatori francescani dei secoli passati in Cina e in Mongolia, e anche, come scrittore, a Kipling e Salgari. Obbediente in Cristo, non manca tuttavia, davanti ai potenti, e anche al Papa, di parlare libero, e nemmeno manca di un'arguta dignità. Quando, tornato in patria, nell'ottobre del 1879, Papa Leone Xlil lo crea cardinale, mentre sta per entrare nella sala del trono a ossequiare il Papa, il cerimoniere lo prega, per rispetto all'etichetta, di lasciare in anticamera quel singolare pastorale di cedro e d'ulivo. Ma 11 vecchio missionario non cede: «Non sia mai che io abbandoni nella prosperità chi mi fu sempre compagno nell'avversità». L'uomo che ha risalito il Nilo pieno di coccodrilli, che ha guadato ad alto rischio le cascate del Nilo Azzurro, e sfidato le tempeste di sabbia nel deserto, e le catene e le percosse dei killer dell'imperatore Joannes IV, non tenie certo di offendere il Papa o il protocollo entrando in udienza col suo fidato sostegno. D'altronde, pur essendo di carattere piuttosto difficile e forte, non è privo del senso dei li miti e quindi dell'umiltà, e già in una lettera del 1885 ha risposto al Comitato che propone la posa di una lapide in suo onore nel Municipio di Piova d'Asti, dice: «Desidero che si sappia non essere io infine che un povero cappuccino, un missiona rio di Gesù Cristo; qualunque altra dignità e supposto inerito non sono per me che maggiori presso Dio e presso gli uomini». In una lettera all'amico Anto- nio d'Abbadie, Massaja spiega il motivo per cui è stato cacciato dall'Abissinia nonostante la simpatia che gli ha dimostrato Menelik II: «La regina Bafana, il reggimento dei Gondaresi, che Menelik aveva formato nelle sue vedute dell'impero universale, e il partito karra, hanno obbligato Menelik a trattare la pace fatale che doveva produrre la nostra espulsione, e più tardi la rovina del regno di Menelik». Leone XIII abbraccia il grande missionario. La porpora è il minimo, tra i segni esteriori della gratitudine, che il fedele cappuccino merita. «Voi — gli dice il Papa "— collo splendore della sacra porpora diffonderete più viva la luce di quella vita apostolica di cui foste nobilissimo esempio, animato dal soffio della carità di Cristo». Nel suo Piemonte, dopo 35 anni di missione, Massaja torna tuttavia solo per pochi giorni, dal 24 giugno all'8 luglio 1881, fermandosi nell'amato convento di Santa Maria di Campagna. E lì sembra ritrovare lo spirito dell'adolescenza e dell'arguzia dei primi anni beati della sua vita religiosa. Un giornalista che lo vide racconta che Massaja «stava raccontando barzellette e motti di spirito, e mi fece meraviglia la sua gaiezza di spirito. Parlava in piemontese, intercalando sovente il discorso con qualche parola italiana o espressione... dirò malabarica. Mi permisi un'osservazione: "Monsignore, come ha fatto a non dimenticare in trentacinque anni il dialetto natio?", "n bon fieul 'd Giandoja a dismentija nen la madre lingua 'd Callianet'. Riconobbe più volte d'essere debitore a un grande santo come il Cottolengo. Il maestro e il penitente Quale ^confessore straordina rio» di preti e religiosi, Massaja ebbe nei primi anni come penitente anche il Cottolengo. «Dei suoi salienti consigli — scrive poco dopo — ho fatto tesoro nelle mie missioni in Africa, dove ho procurato d'imitarne gli esempi. A lui devo specialissima gratitudine perché dai suoi sapientissimi consigli devo in parte la mia vocazione alle missioni». Preferiva essere «di poche parole», a vantaggio di una «tenace volontà». Pur essendo per carattere dotato di «una forte tendenza all'orgoglio», l'autocontrollo e la disciplina interio¬ re ne hanno fatto, in missione e dovunque altrove, un francescano degno sia delle pagine dei Fioretti, che dei Promessi Sposi. Una grazia è certo stata per lui, soprattutto nelle strettoie più atroci in cui si è spesso trovato, la «tendenza a una fine ironia», convertita quasi sempre in pronto autoumorismo. Un uomo per certi aspetti, ancora tutto da scoprire. E' anche un santo? Leone XIII, quando, il 6 agosto 1889, apprende che Massaja è morto, nei convento di San Giorgio a Cremano presso Napoli, esclama: «E' morto un santo». Fra i tre vescovi da Massaja consacrati in Abissinia nel 1868, c'era anche Giustino De Jacobis, un altro grande missionario. De Jacobis ha già avuto l'aureola. Toccherà anche a Lorenzo An1 tonio Massaja a onore della i grande famiglia dei più recenti ! santi piemontesi a cavallo di I questi due secoli? I processi per la sua canonizzazione sono iniziati già nel 1914. A un secolo dalla morte, in un'epoca in cui un'aureola non si nega a nessuno, proprio lui, animatore e fondatore delle nuove missioni cattoliche, rischia forse di restarne senza? Nazareno Fabbretti Alcune immagini di Massaja cappuccino missionario durante la sua epopea etiopica In viaggio per il deserto. Durante le vaccinazioni contro il vaiolo. Il supplizio del «mancor». di, viaggiando anche per i sentieri più pericolosi e disagevoli, per quindici anni, senza sandali. Come vescovo, nei riti solenni usa il «pastorale». Ma nella vita usa, anche per sostegno, soltanto un robusto bastone di legno di cedro del Libano, con l'impugnatura ricavata dalla radice di un ulivo del Gethsemani. Con avvedutezza politica, il governo italiano nomina quel tria, nellottobre del 1879, Papa Leone Xlil lo crea cardinale, mentre sta per entrare nella sala del trono a ossequiare il Papa, il cerimoniere lo prega, per rispetto all'etichetta, di lasciare in anticamera quel singolare pastorale di cedro e d'ulivo. Ma 11 vecchio missionario non cede: «Non sia mai che io abbandoni nella prosperità chi mi fu sempre compagno nell'avversità». L'uomo che ha risalito il Nilo pieno di coccodrilli, che ha guadato ad alto rischio le cascate del Nilo Azzurro, e sfidato le tempeste di sabbia nel deserto, e le catene e le percosse dei killer dell'imperatore Joannes IV, non tenie certo di offendere il Papa o il protocollo entrando in udienza col suo fidato sostegno. D'altronde, pur essendo di carattere piuttosto difficile e forte, non è privo del senso dei li miti e quindi dell'umiltà, e già in una lettera del 1885 ha risposto al Comitato che propone la posa di una lapide in suo onore nel Municipio di Piova d'Asti, dice: «Desidero che si sappia non essere io infine che un povero cappuccino, un missiona rio di Gesù Cristo; qualunque altra dignità e supposto inerito non sono per me che maggiori presso Dio e presso gli uomini». In una lettera all'amico Anto- nio d'Abbadie, Massaja spiega il motivo per cui è stato cacciato dall'Abissinia nonostante la simpatia che gli ha dimostrato Menelik II: «La regina Bafana, il reggimento dei Gondaresi, che Menelik aveva formato nelle sue vedute dell'impero universale, e il partito karra, hanno obbligato Menelik a trattare la pace fatale che doveva produrre la nostra espulsione, e più tardi la rovina del regno di Menelik». Leone XIII abbraccia il grande missionario. La porpora è il minimo, tra i segni esteriori della gratitudine, che il fedele cappuccino merita. «Voi — gli dice il Papa "— collo splendore della sacra porpora diffonderete più viva la luce di quella vita apostolica di cui foste nobilissimo esempio, animato dal soffio della carità di Cristo». Nel suo Piemonte, dopo 35 anni di missione, Massaja torna tuttavia solo per pochi giorni, dal 24 giugno all'8 luglio 1881, fermandosi nell'amato convento di Santa Maria di Campagna. E lì sembra ritrovare lo spirito dell'adolescenza e dell'arguzia dei primi anni beati della sua vita religiosa. Un giornalista che lo vide racconta che Massaja «stava raccontando barzellette e motti di spirito, e mi fece meraviglia la sua gaiezza di spirito. Parlava in piemontese, intercalando sovente il discorso con qualche parola italiana o espressione... dirò malabarica. Mi permisi un'osservazione: "Monsignore, come ha fatto a non dimenticare in trentacinque anni il dialetto natio?", "n bon fieul 'd Giandoja a dismentija nen la madre lingua 'd Callianet'. Riconobbe più volte d'essere debitore a un grande santo come il Cottolengo. Il maestro e il penitente Quale ^confessore straordina rio» di preti e religiosi, Massaja ebbe nei primi anni come penitente anche il Cottolengo. «Dei suoi salienti consigli — scrive poco dopo — ho fatto tesoro nelle mie missioni in Africa, dove ho procurato d'imitarne gli esempi. A lui devo specialissima gratitudine perché dai suoi sapientissimi consigli devo in parte la mia vocazione alle missioni». Preferiva essere «di poche parole», a vantaggio di una «tenace volontà». Pur essendo per carattere dotato di «una forte tendenza all'orgoglio», l'autocontrollo e la disciplina interio¬ re ne hanno fatto, in missione e dovunque altrove, un francescano degno sia delle pagine dei Fioretti, che dei Promessi Sposi. Una grazia è certo stata per lui, soprattutto nelle strettoie più atroci in cui si è spesso trovato, la «tendenza a una fine ironia», convertita quasi sempre in pronto autoumorismo. Un uomo per certi aspetti, ancora tutto da scoprire. E' anche un santo? Leone XIII, quando, il 6 agosto 1889, apprende che Massaja è morto, nei convento di San Giorgio a Cremano presso Napoli, esclama: «E' morto un santo». Fra i tre vescovi da Massaja consacrati in Abissinia nel 1868, c'era anche Giustino De Jacobis, un altro grande missionario. De Jacobis ha già avuto l'aureola. Toccherà anche a Lorenzo An1 tonio Massaja a onore della i grande famiglia dei più recenti ! santi piemontesi a cavallo di I questi due secoli? I processi per la sua canonizzazione sono iniziati già nel 1914. A un secolo dalla morte, in un'epoca in cui un'aureola non si nega a nessuno, proprio lui, animatore e fondatore delle nuove missioni cattoliche, rischia forse di restarne senza? Nazareno Fabbretti Alcune immagini di Massaja cappuccino missionario durante la sua epopea etiopica In viaggio per il deserto. Durante le vaccinazioni contro il vaiolo. Il supplizio del «mancor». Cottolengo mabile Il ordinale Guglielmo Massaja col suo bastone in cedro del Libano, con Impugnatura d'ulivo del Gethsemani Il ordinale Guglielmo Massaja col suo bastone in cedro del Libano, con Impugnatura d'ulivo del Gethsemani