Un robot al posto di Jobbar? di Gian Paolo Ormezzano

Un robot al posto di Jobbar? BASKET Uscito di scena il campione più amato sarà difficile trova *e un sostituto Un robot al posto di Jobbar? Come rinnovare un grande mito dello sport Adesso che Kareem Abdul Jabbar ha lasciato il basket con la brutta partita, sua e dei Los Angeles Lakers, che è stata quella della consegna ai Detroit Pistons del titolo Nba, il basket professionistico americano, si propone, come in ogni sport, il tema del mito impossibile o difficile da rinnovare. La gente oscilla fra «più nessuno come lui» e «quando un altro come lui?». E' un tema ricorrente, più insistito in quegli sport che hanno vasta popolarità televisiva: sembra quasi che certe imprese di campioni siano un film, e che la gente, appena vistolo, si chieda quando mai ne vedrà uno eguale. In pochi anni, si sono rovesciati i termini del rapporto mito-fruitore. Una volta il mito aveva vigore, prendeva possesso dei cuori, degli animi, perché servito in piccole vaghe dosi. Il servizio offerto al pubblico era pressocché esclusivamente quello della stampa scritta. Le fotografie erano supporti, non documenti. I filmati erano pochi, e per vederli bisognava andare nelle sale apposite. In Italia la «Settimana Incom», trasmessa prima del film, era regolarmente in grosso ritardo sulle gesta di Coppi. La costruzione del mito veniva affidata alle nostre fantasie. Adesso, mentre Jabbar lascia (in diretta televisiva, a 29" dalla fine del quarto incontro di play-off fra i suoi di Los Angeles e quelli di Detroit), si ha proprio tutto: il suo curriculum, il primo piano di una lacrima. In milioni vedono. Milioni di persone amarono Coppi senza mai averlo visto se non immobile in fotografia. Jabbar, secondo taluni, ha significato la piena utilizzazione ./consumazione delle risorse televisive, anzi, usando un termine che sta irrompendo, mediatiche. Probabilmente è impossibile con i mezzi attuali fare, dare di più senza ricalcare, annoiare. Di particolarmente suo, lui ha aggiunto la rivoluzione della sua vita, da quando si è fatto musulmano, lasciando quel nome e quel cognome, Lew Alcindor, che nel basket erano già celeberrimi. E' stato come un nuovo inizio, ed intanto un raddoppio: molti hanno sovrapposto Jabbar su Alcindor, il personaggio è diventato subito spessissimo. Personalmente, il suo ingrossarsi e mitizzarsi sempre più ci ha portato in mente il primo nostro approccio fisico con il basket professionistico d'America. Era il febbraio 1960 e nella nostra prima New York scovammo, al Madison Squaie Garden vecchio, quasi tutto in mattoni rossi (ora il secondo è anch'esso obsoleto, andrà giù, ne faranno un terzo), un incontro di Nba fra i locali Knickerbokers e i Boston Celtics. Nella squadra bostoniana giocava Bob Cousy, il playmaker che allora veniva definito come il più grande di tutti i tempi, probabilissimamente destinato a non avere successori. E c'era pure Bill Russell, un negro alto ma non altissimo che quattro anni prima, già grande nel basket ma non ancora professionista, era stato selezionato per il salto in alto ai Giochi olimpici di Melbourne. Cousy è ancora limpido in mente. Tutta la squadra giocava al gioco di dargli la palla. Lui la faceva battere per terra e poi la ridava ad uno smarcato o poco marcato, quasi mai a Russell che non era in giornata. Non sbagliava un passaggio, indovinava giocatori lontani, liberi. Nessun avversario gli andava vicino per rendergli meno facili gli smistamenti. Ogni tantissimo Cousy tirava, e faceva anche qualche centro. Lo applaudimmo tante volte, i Boston Celtics vinsero bene, pensammo che non ci sarebbe mai più stato uno come lui. Adesso ci sono playmaker, non molti ma non pochi, che eseguono le stesse cose con l'assillo di avversari che sono piovre. Un valido playmaker di adesso corre il triplo di Cousy, passa la palla ancora meglio di lui, va sovente al tiro e realizza anche in condizioni difficilissime. E ruba pure qualche pallone, senza sempre aspettare il passaggio dei compagni. Questo non vuol dire che Cousy fosse un supervalutato. Probabilmente, con la sua classe, adesso sarebbe enorme, a patto di allenarsi come allora manco sognava (e come furiosamente si è sempre allenato Jabbar, anche e specialmente andando verso i quarant'anni). Comunque il divertimento non ci pare che possa consistere nell'immaginare cosa farebbe un Cousy adesso, ma cosa farà un Jabbar, nel Duemila, che è poi lì dietro l'angolo. E ci pare che si tratti di un divertimento non solo legittimo, ma necessario per liberarci dal mito proprio nel momento in cui prende anche ad asfissiarci con proposte di irripetibilità. Decidere che ci sarà un altro Jabbar, e poi chiederci come diavolo sarà: ecco il gioco che possiamo fare subito. Se riteniamo che il suo gancio cielo sia come l'O di Giotto, non migliorabile, ascoltiamo cosa dice Norm Nixon, che sta alla Scavolini Pesaro e che giocò con lui e contro di lui ncll'Nba: quello che si è visto in Italia, dove la carriera di Jabbar è stata telediffusa soltanto nei suoi anni conclusivi, con lui intorno alla quarantina, è niente, i! suo gancio-cielo di una volta era enormemente migliore. Proviamo a pensare al mito come ci verrà servito in futuro, con quali accorgimenti tecnologici. Sul teleschermo, che sarà enorme, la parete del salotto, vedremo anche al lavoro il cuore, i muscoli, il cervello di un altro Jabbar. Avremo nuovi strumenti di valutazione, di entusiasmo. Il problema non è quello di sapere se c.» sarà un altro come lui. Il problema è di sapere, se proprio lo si vuol sapere in anticipo, come ci verrà proposto il nuovo mito, con quali filtri, con quali marchingegni per visitarlo. E sperando che ci sia sempre il primo piano della lacrima. Gian Paolo Ormezzano Alcindor. alias Jabbar

Persone citate: Bill Russell, Coppi, Garden, Kareem Abdul Jabbar, Norm Nixon

Luoghi citati: America, Detroit, Italia, Los Angeles, Los Angeles Lakers, Melbourne, New York