L'«oscuro disegno» contro Bankitalia di Stefano Lepri

L'«oscuro disegno» contro Bankitalia L'«oscuro disegno» contro Bankitalia Quel blitz del 79, quando Andreottipreferì tacere ROMA. «Ai detrattori della Banca auguro che nel morso della coscienza trovino riscatto del male che hanno compiuto». Così, annunciando le sue dimissioni da governatore della banca d'Italia il 31 maggio del 1979, Paolo Baffi si rivolse a chi lo aveva quasi trascinato in galera accusandolo di reati inesistenti: così, con parole d'altri tempi che in bocca a quasi chiunque sarebbero suonate false. Forse Baffi non sperava che gli autori dell'«oscuro disegno» contro la Banca d'Italia potessero davvero provare qualcosa di simile a un «morso della coscienza». Ma così riteneva di dover dire, per segnalare i valori in cui credeva, ai giudici che in capo a due anni dovevano poi scagionarlo nel modo più completo, ai giornali della «campagna di stampa intessuta di argomenti falsi e tendenziosi», alle forze politiche occulte. L'assalto alla Banca d'Italia era partito la mattina di sabato 24 marzo 1979, quando i carabinieri avevano suonato alla porta di Mario Sarcinelli, allora vicedirettore generale della Banca d'Italia, per condurlo nel carcere di Regina Coeli. A Baffi l'arresto era stato risparmiato, trapelò dal palazzo di Giustizia, solo a causa della sua età e del pericolo di un crollo della lira. Favoreggiamento e interesse privato in atti d'ufficio furono le accuse, alle quali si aggiunse Poi quella di peculato. In quelItalia fragile, scossa dal terrorismo e infiltrata (si scoprì poi) dalla loggia P2, con una economia ancora impastoiata nella stagnazione-inflazione degli anni '70, la risonanza della vicenda fu enorme. Appena quattro giorni prima, il 20 marzo, era stato commesso uno dei delitti più oscuri di tutta la storia della Repubblica: l'assassinio del giornalista Mino Pecorelli, direttore di una ambigua agenzia di stampa, la OP. Per l'appunto la OP si era distinta nella campagna di ac¬ cuse contro Bankitalia. Cinque giorni dopo l'arresto di Sarcinelli, le Brigate rosse tornavano a uccidere. L'inchiesta giudiziaria nasceva dal crack del gruppo chimico Sir di Nino Rovelli. L'Imi, il Cis (Credito industriale sardo) e altre banche pubbliche avevano prestato a Rovelli molto denaro, perdendolo. I magistrati accusavano la Banca di Italia di aver commesso un reato ncn consegnando lóro il rapporto della Vigilanza dal quale emergevano ipotesi di reato nei finanziamenti Cis. Baffi e Sarcinelli, a norma dell'articolo 10 della fondamentale legge bancaria, non erano obbligati alla trasmissione del rapporto; l'avevano successivamente inviato ai giudici; gli stessi giudici conclusero poi che i finanziamenti non erano irregolari. Ma nel frattempo Baffi aveva ritenuto necessario lasciare l'incarico (si dimise quando fu certo che il successore sarebbe stato Carlo Azeglio Ciampi, e non un uomo imposto dal potere politico). Il motivo vero dell'assalto non è stato mai chiarito con certezza. Molti, tra cui lo stesso Baffi, lo hanno ritenuto una rappresaglia per la prima ispezione compiuta dalla Banca d'Italia nel Banco Ambrosiano, allora in mano alla P2; l'episodio principale di una battaglia destinata a concludersi solo con la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano ne! giugno '82, e a prolungarsi nel mistero della morte di Roberto Calvi sotto il ponte di Blackfriars. A favore dèlia Banca d'Italia si sviluppò una solidarietà che Baffi definì «commovente». Firmarono un appello i governatori delle più importanti Banche centrali, il ministro del Tesoro degli Stati Uniti, il direttore del Fondo monetario internazionale, il presidente della commissione Cee, economisti come Paul Samuelson e Franco Modigliani, banchieri come Rockefeller. In Italia l'intera «società degli economisti» si schierò a fianco della Banca d'Italia, e fu convocata dai magistrati per questo, Un altro appello ebbe come primo firmatario Giuliano Amato. L'incarico di avvocato difensore di Baffi fu assunto da Giuliano Vassalli, attuale ministro di Grazia e Giustizia. Nel mondo politico si notarono ampie attestazioni di stima, però anche alcuni silenzi. Giulio Andreotti, allora come oggi capo di un governo appena formato, sostenne che era meglio tacere per evitare contrapposizioni tra potere politico e magistratura. Parecchi ministri, guidati da Bruno Visentin!, insistettero. Fu posto per la prima volta il problema della responsabilità civile del giudice. Dopo 5 giorni una presa di posizione del governo alla fine giunse. Ma presentandosi alle Camere Andreotti non fece alcun cenno alla vicenda. Stefano Lepri

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