BACHMANN di Cinzia Romani
BACHMANN BACHMANN Una lunga solitudine in 30 interviste IROMA 0 la conoscevo bene. Dicono tutti così, certi intellettuali di Roma. E raccontano delle parrucche da torero, del pesce marcio che non toccò, ma che fece mangiare sano sano a un poeta del Gruppo '63, Alfredo Giuliani, delle lunghe clausure a base di yogurth e scrittura. Chi, oltre vent'anni fa, ha visto a Roma Ingeborg Bachmann, tra i più grandi autori di lirica e prosa germanica emersi nel dopoguerra, ricorda comunque un particolare di lei. Magari anche soltanto la risata squillante p i braccialetti da ragazza perbene. A quindici anni dal tragico incidente di via Giulia, dove la scrittrice abitava nel suo ultimo periodo romano e dove, una sera d'ottobre, si assopì con la sigaretta tra le dita, arriva un volume di trenta interviste a dirci, in presa diretta, com'era lei. Mentre da viva ha contrapposto all'altrui violenza un'impenetrabilità gentile, la potenza isolatrice del proprio stile di vita, l'estrema eleganza della sua umanità, da morta è stata oggetto di chiacchiere. Già intorno al suo letto d'ospedale, ai'Grandi Ustionati del Sant'Eugenio, ci furono risse. Come quella tra il fratello di Ingeborg e la scrittrice Fleur Jaeggy, che registrò la voce ar-rochita dell'amica morente su un nastro, poi distrutto dai parenti indignati. Femminilmente fresca come un'eterna adolescente, la Bachmann ha convissuto con lo scrittore svizzero Max Frisch e col compositore tedesco Hans Werner Henze, ma non è valso a dissipare le voci sulla sua omosessualità. E poi; altri sussurri sul consumo di psicofarmaci, sul caratteraccio da scontrosa misantropa, sulle infinite manie, l'accompagnano come un'aura malsana. Questa ultima erede di un altro illustre austriaco, Robert Musil, cui si apparenta per lo stile capace ora di fluide liricità, ora di crude registrazioni dell'accadere, precisava sempre: «L'indiscrezione da noi è la cosa peggiore». Così, nelle interviste ora pubblicate, «In cerca di frasi vere» (Laterza, pp. 236, L. 20.000) la Bachmann prova ad occultare più che a rivelare i propri tratti autobiografici. Ma come sempre accade, quando l'intervi¬ statore è bravo, l'intervistato svela docilmente quel che non vorrebbe. Dai vari colloqui tenuti dal '53 al '73 emerge così un atteggiamento morale sorretto dalla profetica sprezzatura che distingue gli autentici maestri di pensiero. Anche alle domande più banali, Ingeborg Bachmann risponde con un pensiero forte sulla letteratura e sui suoi compiti, sui massmedia, sull'impoverimento del linguaggio, sul fascismo culturale, sulla perdita di esperienza. Questioni che ci riguardano molto da vicino. «A che servono i poeti in tempi di privazione?», s'interroga citando Hòlderlin per ribadire quant'è necessario sentire parole di speranza in epoche feroci. «Dobbiamo trovare frasi vere, ■ che corrispondano a un mondo che è cambiato... Data una vita di seconda mano, si fa un tentativo disperato di portare gli uomini a notare i problemi veri, non quelli che si affibbiano loro dall'esterno. E se mai ci si domandasse quali compiti abbia uno scrittore — per lo più si tratta di domande retoriche — direi sempre di trascinare la gente nelle esperienze fatte dagli scrittori, quelle esperienze che un pericoloso sviluppo del mondo moderno sottrae». Bombardate dalle comunicazioni di massa, le nostre trincee sembravano mute all'autrice che già nel '61 riteneva dannoso l'eccesso d'informazione. «Sospetta di te quanto basta, sospetta le parole, il linguaggio, approfondisci questo sospetto, perché un giorno possa nascere qualcosa di nuovo, o. è meglio che non nasca più nulla. I pregi di ogni linguaggio si radicano nella sua morale, ha detto Una volta Karl Kraus». Come per tanti scrittori di lingua tedesca, anche per lei l'Italia ha svolto un ruolo particolare: «In Italia sono diventata più febee; qui ho imparato a far uso dei miei occhi, ho imparato a guardare. In Italia mi piace mangiare, mi piace andare per strada, mi piace guardare le persone». Sebbene negli ultimi tempi il luogo in cui vivere non fosse più così importante: «Per me conta ancora avere una stanza tranquilla, possibilmente con due tavoli e molti libri alle pareti. Lo so, aver sempre cambiato casa, aver vissuto ora qui, ora là, ha allontanato molta gente. Ma i sedentari stupiscono sempre i vagabondi, e i vagabondi stupiscono i sedentari». Fulminante e precisa, così replica alla domanda sui rapporti uomo-donna nei suoi scritti: «Dell'emancipazione femminile, non m'importa nulla. La donna pseudomoderna, con la sua tormentata bravura, per me è sempre stata bizzarra e incomprensibile». Detto da chi, come lei, ha campato la vita da sola, studiando, lavorando e guadagnando da sé, fa suonare a festa le campane della libertà vera. Quella libera anche dalla liberazione. Cinzia Romani
Persone citate: Alfredo Giuliani, Bachmann, Fleur Jaeggy, Hans Werner Henze, Ingeborg Bachmann, Karl Kraus, Max Frisch, Robert Musil
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