Baretti delle polemiche, aperto alla cultura europea di Piero Gobetti

Baretti delle polemiche, aperto alla cultura europea Moriva a Londra due secoli fa, poco prima della Rivoluzione francese, il torinese che ispirò Piero Gobetti Baretti delle polemiche, aperto alla cultura europea La frusta di Aristarco Scannabue contro provincialismi e dogmi angusti POCHI mesi prima dell'inizio della Rivoluzione francese moriva a Londra, duecento anni fa, Giuseppe Baretti, una delle poche figure intellettuali di una certa importanza che abbia avuto il Piemonte, da cui, peraltro, il Baretti si distaccò ben presto, non tollerando il clima reazionario e torpido, allora dominante nel Regno di Sardegna. Nato a Torino nel 1719, entrato prestissimo in contrasto con il padre, visse in varie città italiane tra cui Milano, Venezia ed Ancona, scegliendo poi di stabilirsi in Inghilterra, il cui ambiente politico e culturale gli apparve — al confronto di quello piemontese e italiano — assai più libero e tollerante. Uomo sanguigno e feroce polemista, non era fatto per vivere in un Paese dalle idee ristrette, anche se attorno alla sua figura si è creato un mito di «ribelle» che non corrisponde alla realtà. Piero Gobetti nel 1924 sentì il bisogno di intitolare II Baretti la sua rivista letteraria che si affiancava all'ormai agonizzante Rivoluzione liberale. Gobetti nell'articolo di presentazione della rivista definiva il Baretti «esule e pellegrino pre¬ romantico», vedendo in lui quasi il simbolo di una «battaglia contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle frontiere dei dogmi angusti e di piccole patrie». Aveva sicuramente ragione nell'individuare nel Baretti un uomo autenticamente, aperto alla cultura europea. É' questo infatti il merito maggiore che gli va riconosciuto. Ma va anche aggiunto — come già rilevava Luigi Russo — che «il nuovo è il vecchio si mescolano nella figura e nell'opera del Baretti, per un certo tempo alquanto sopravvalutato come critico e innovatore». Il Baretti non si può considerare un illuminista anche se è fuor di dubbio che lo svecchiamento della cultura che pretendeva dai letterati del suo tempo è anche di natura illuminista. Anzi, fu persino .in polemica col gruppo milanese del Caffè, la rivista che condusse in Italia le più coraggiose battaglie dell'illuminismo riformatore. Baretti fu spesso contraddittorio. Quando a morale e religione, ad esempio, si può considerare un tradizionalista, come ha sostenuto Giuseppe Petronio, che è giunto a definirlo «moralista fino alla pedanteria». Un rapido confronto con gli illuministi piemontesi, Radicati di Passerano e F. Dalmazzo Vasco, autenticamente impegnati nella politica delle riforme fino all'aperta ribellione contro l'ottusità sabauda, ci dimostra come il Baretti si sia limitato alle sole polemiche letterarie, rifuggendo da qualsivoglia coinvolgimento politico. Con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, nel suo quindicinale La frusta letteraria pubblicato prima a Venezia e poi ad Ancona, egli si scagliò — come ricorda il Binni — contro «la vigliacca Italia», i suoi costumi arretrati e le sue frivole mode francesizzanti, «i vigliacchi patriotti» nemici delle «cose belle ed utili». La sua battaglia condotta con grande vigore contro l'Arcadia e le sue «pastorellerie» fu anche ima denuncia contro quelle istituzioni culturali che, responsabili del malcostume letterario, erano delle vere e proprie scuole di servilismo e di adulazione. Egli fu tra i primi letterati italiani a rifiutare le protezioni di corte per vivere, secondo l'esempio inglese, del proprio lavoro di scrittore. Nel contempo rifiutò anche la cultura illuministica francese che confuse con «il filosofismo» astratto (un pregiudizio di matrice anglosassone?), commettendo un errore di valutazione della portata storica e del significato rinnovatore della cultura d'Oltralpe rispetto alla decrepita e stantia tradizione culturale di casa nostra, quasi del tutto rinsecchita — se escludiamo il Vico — nella sterile erudizione o nel vieto conformismo gesuitico. Con l'innato istinto polemico scrisse: «Non sapete voi che più giova a una città un corpo di ciabattini o di votacessi, che non la più numerosa accademia di filologi, o la più popolata colonia d'immaginari pastorelli? Non sapete voi, anzi, che queste accademie o queste Arcadie sono perniciose alla società, poiché i loro membri non sanno per lo più far altro che adularsi reciprocamente, e quindi cinguettare d'elementi grammaticali, o fabbricare sonettuzzi da ventuno al quattrino?». Il Baretti si pronunciò per uno stile chiaro, semplice, accessibile non solo ai dotti, uno stile che egli stesso adottò nei suoi scritti, notevoli per la vi¬ vacità e l'immediatezza del linguaggio. Per ciò che riguarda in modo specifico la sua cultura letteraria ed i suoi giudizi critici (non giunse mai ad una concezione estetica precisa) non fu certo privo di pregiudizi ed esente da errori anche vistosi. Per il suo gusto per la libertà e per le sue insofferenze il Baretti anticipò in qualche misura l'Alfieri ed è comprensibile, in questo senso, la viva simpatia che suscitò in Gobetti che dell'Astigiano aveva fatto uno dei suoi «eroi». In un secolo complesso e tormentato come il '700 in cui si maturò la crisi del vecchio mondo ed il berretto frigio prevalse sulle parrucche incipriate dei cicisbei, anche la robusta polemica anticonformista di un uomo come il Baretti merita attenzione: nel suo continuo contrapporre l'esperienza della vita a quella puramente libresca e nella sua concretezza tutta anglosassone, anch'egU ha contribuito a creare le premesse di un rinnovamento culturale e di una apertura dell'Italia verso l'Europa moderna. Pier Franco Quaglìeni