Con Stan Getz, il Mozart d di F. Mond.

Con Stan Getz, il Mozart d Successo con tanta musica e un folto pubblico al Festival di Aosta, giunto alla seconda edizione Con Stan Getz, il Mozart d Cinque complessi in scena. La rassegna internazionale si è conclusa ieri sera con il travolgente trionfo dei Manhattan Transfer, i maestri del «vocalese» AOSTA. Con il tutto esaurito all'arena della «Croix Noire», si è concluso ieri sera il festival del jazz di Aosta. Erano di scena i favolosi «Manhattan Transfer», quartetto vocale che ha la capacità di coinvolgere non solamente il pubblico del jazz ma anche quello, ben più vasto, della musica pop. Il loro repertorio sa infatti cogliere nel segno a ogni canzone. Il trionfo si è ripetuto ad Aosta dove ieri sera hanno spopolato. Se in disco ottengono risultati impressionanti, dal vivo sono dei veri maestri di spettacolarità, così mobili nella scena come nella vocalità. Un vero show. Tanto di cappello a questo tipo di professionismo all'americana, dove forse il mestiere e l'astuzia prevalgono sull'autenticità ma a tutto vantaggio di un pubblico che ha voglia di divertirsi. La rassegna si era iniziata venerdì con due complessi di jazz: il quintetto Boltro/Giammarco (con Tommasi, Del Fra, Mandimi e con la «Charles Mingus Superband», diretta da Jimmy Knepper. Il gruppo di Boltro ha aperto il concerto iniziando con un «Half Nelson» in pieno stile neobop, mantenendo per tutto il programma un tono di ampio respiro, con spazio per i solisti mentre un solido ed elastico background ritmico sosteneva la brillantezza della «front line». Un gruppo che ha meritato gli applausi, un gruppo che insieme con alcuni noti solisti nazionali disponeva di uno dei migliori e più intelligenti bassisti oggi in azione in Europa: Riccardo Del Fra, romano di nascita, residente a Parigi, il bassista che era il preferito di Chet Baker, in assoluto. Nostalgia e cultura con la Superband diretta da Knepper che ha proposto alcune tra le più interessanti composizioni di Charlie Mingus, il bassista/leader/autore scomparso dieci anni fa e ancora oggi indimenticabile. Era un uomo forte dalla personalità imponente (come la sua mole), potremmo definirlo il Duke Ellington del jazz moderno. Scriveva anch'egli musi¬ ca per i musicisti che suonavano con lui, proprio per loro, per la loro voce, la loro personalità. Tuttavia senza la sua presenza, davvero carismatica, oggi riascoltarlo in fase commemorativa ci lascia dentro il cuore un profondo senso di nostalgia: Mingus era un vero leader, un conduttore, un Karajan del jazz. Senza lui e il suo contrabbasso, quelle musica non è più quella che avevamo ascoltato nel passato (concerti, dischi) e rimane appunto una mesta commemorazione. Forse è giusto così: il jazz non è tanto musica scritta sulla carta quanto musica vissuta sulla scena della vita. Inevitabilmente il clou del festival rimane dunque sabato sera con Stan Getz, mister «Suono», il grande sassofonista, l'ultimo gigante sopravvissuto alla piccola ondata di geniettì nel jazz bianco (Chet Baker e Bill Evans non sono più tra noi). Imitato da trent'anni e oltre, ora il jazz di Getz poprebbe apparire datato se dessimo retta alle mode che cambiano fac¬ cia e umore. Ma la verità rimane la verità almeno per qualche decennio. La verità è che Getz si impone in assoluto tra i personaggi più intensi e personali della storia del jazz moderno. Ancora oggi il suo repertorio fatto di standards, blues e ballades mette in evidenza la lucidità di un fraseggio vissuto intensamente, complesso nell'articolazione eppure (apparentemente) facile. Questo è il vero colpo di genio del grande Getz: scavare nel profondo della musica senza dare al pubblcio motivo di stanchezza, di fatica. Ascoltare Getz per un jazzman è come ascoltare Mozart per per chi ama la musica classica. Quanto lavoro, quanta intelligenza, quanta.fatica, gettati in faccia così quasi sorridendo, come se tutto si riducesse a un giochetto facile facile. Al pianoforte c'era Kenny Barron, che appare l'accompagnatore ideale per Stan. Essenziale, meditativo, coerente, perfettemente in linea con il fraseggio sorprendente del leader, Barron si è fatto applaudi¬ re a scena aperta anche come solista. Ma tutto il quartetto suonava e suonava per Getz, in perfetto stile Getz: dal batterista Ben Riley, un anziano solista parco nei suoni, ricco nella dinamica al bassista giapponese Yasuhito Mori che sostituiva l'indisposto Ray Drummond. Quattro italiani in apertura: Paolo Fresu, Franco D'Andrea, Furio di Castri e Aldo Romano. Un quartetto molto moderno, costruito con cura sulla classe di ogni solista. Si tratta di una formazione che è stata riunita da Aldo Romano, italo-francese, che ha portato non senza nostalgia alcuni suoi sodali a Parigi per fare concerti e dischi. Ne è sorto un complesso assai organizzato e compatto. I temi sono costruiti con cura e gli assoli mettono in mostra la classe di ognuno dei solisti. Impressionante, come sempre, Franco D'Andrea che eseguie delle improvvisazioni che paiono scritte tanto sono lucide e coerenti nel periodare. [f. mond.]

Luoghi citati: Aosta, Europa, Parigi