Travestita nella moschea

Travestita nella moschea Travestita nella moschea TUTTE le mattine, al sorgere del sole, andavo a sedermi sotto il portico della «zaouia» Sidi Abd er Rahman, ad Algeri. Entravo, grazie al mio travestimento, nella santa «zaouia» all'ora della preghiera... Che strana cosa! Ho provato, nell'ombra antica di questa moschea dell'Islam, emozioni ineffabili al suono della voce alta e forte dell'iman che salmodiava le antiche parole della fede musulmana in quella bella lingua araba, sonora e virile, musicale e possente come il vento del deserto dove è nata, da dove è venuta, sotto l'impulso di un'unica volontà umana, a conquistare la metà dell'Universo... Ascoltavo le parole che presto avrei capito e amato... E guardavo l'iman. Era un vecchissimo sceicco e «Iriqua» del sud, un arabo di pura e antica razza, senza sangue berbero. Già canuto, con grandi occhi a mandorla, inespressivi, ma ancora nerissimi. Quegli occhi si accendevano a momenti di una luce intensa, come una scintilla rianimata da un soffio improvviso, poi tornavano a un'immobilità inquietante e solenne. Di solito, non c'era molta gente. Tra gli altri, alcuni veri credenti, convinti, che sembravano pendere estatici dalle labbra dell'iman... Ce n'era uno, soprattutto, che doveva essere un fanatico. Era un Mozabita sui quarant'anni, di tipo berbero molto pronunciato. Era ortolano a Mustapha e si chiamava Youssef ben el Arbi. Giungeva tutti i giorni alla moschea contemporaneamente a me e, alla fine, cominciammo a scambiarci un «salamhaleik» amichevole. Quell'uomo aveva, per tutta la durata della preghiera, un'espressione veramente estatica.. Diventava pallido e gli occhi gli brillavano stranamente, mentre ripeteva, senza la precipitazione di molti altri, i gesti rituali. Quando usciva, dopo essersi rimesso le brutte «papoudj», dava sempre qualche soldo ai bambini indigeni che chiedevano l'elemosina... Io, uscivo e mi sedevo davanti alla porta, quando tutti se n'erano andati. Mi accendevo una sigaretta «L'Orient» e a gambe incrociate aspettavo l'Amato che veniva sempre a raggiungermi in quel posto prediletto. Per arrivare alla «zaouia», se avevo passato la notte al mio domicilio sul quai de la Pècherie, dovevo andare prima in rue de la Marine, da una lavandaia italiana, Rosina Menotti, che abitava in uno scantinato, dove cambiavo i vestiti da donna con il travestimento corrispondente ai miei piani per il resto del giorno. Poi mi dirigevo lentamente alla «zaouia». Se invece avevo passato la notte vagando imprudentemente nei quartieri pericolosi, o in uno dei miei alloggi della città alta e di Bah Azoun, dovevo prendere scorciatoie fantastiche. Avevo un pied-a-terre da una cantante del quartiere di Sid Abdallah. Un altro in via Si Rahmdan, da certi ebrei... Il terzo, non lontano dalla vecchia moschea d'El Kasbah Meroui, oggi sconosacrata e trasformata in chiesa cristiana. Avevo la possibilità di essere ospitata da un carbonaio negro sudanese di Bab Azoun quando mi piaceva esiliarmi lontano. Ma quasi sempre passavo le notti facendo giri straordinariamente rischiosi o in posti malfamati dove assistevo a scene inverosimili, molte delle quali finivano nel sangue sparso in abbondanza. Conoscevo un numero infinito di individui tarati e loschi, di ragazze equivoche, di pregiudicati che per me erano oggetto di osservazione e di anahsi psicologica. Avevo anche molti amici fidati che mi avevano iniziato ai misteri dell'Algeri voluttuosa e criminale. Quando avevo passato la notte in uno di quegli osservatorii, a volte arrivano la mattina alla «zaouia» da molto lontano... Il sole batteva sopra la graziosa piazza alberata del giardino Marengo. Il cielo era sempre di una purezza immateriale, di una trasparenza di sogno. Il mare scintillava sotto il sole, opalino e chiaro, ancora roseo per i riflessi del cielo mattutino. Il porto si animava e in basso a Bab Azoun sul boulevard de la Republique e sul molo Khe'ir Ed Dine, una folla variopinta si muoveva in due torrenti che scorrevano in senso inverso. In quell'ora dolce e sorprendentemente allegra, mi riposavo. La mia anima sembrava galleggiare nel vuoto ammaliatore di quel cielo inondato di luce e di vita. Furono ore beate, ore preziose di contemplazione, in cui il mio essere si risvegliava alla vita, ore di estasi e di ebbrezza, quelle che passai seduta con quel travestimento, sullo scalino di pietra all'ombra fresca della bella «zaouia» tranquilla. Furono ore di voluttà reale e intensa, di gioventù e di vita! Rimanevo talvolta a lungo seduta ad aspettare, senza spazientirmi, sempre calma. Sapevo di essère arrivata prima dell'ora stabilita per ascoltare la preghiera. Finalmente, dall'altro lato della piazza, vedevo apparire l'alta figura slanciata e magra di Ahmed. Anche lui mi vedeva e mi faceva un gesto con la mano de- stra. Arrivava quasi di corsa, sempre sorridente, sempre allegro. I suoi begli occhi si posavano sui miei, sempre con uguale tenerezza e mi diceva con il suo bel sorriso: «Buon musulmano! Sei già qua ed io sono ancora in ritardo! Salamhaleik, habiba, mahchouki, buongiorno, mia diletta». Mi si sedeva accanto e accendeva alla mia la sua eterna sigaretta. Poi era tutta una chiacchierata interminabile, infinitamente dolce. Mi esaltavo a quella voce melodiosa che parlava arabo bene quanto il turco, la sua lingua materna. Sviluppava ingegnose e sottili teorie sull'arte e la filosofia, sempre nuove e sempre improntate al suo sorridente epicureismo, voluttuoso e indolente. Io gli parlavo dei miei pensieri, dei dubbi e delle seduzioni e talvolta mi diceva: «Sei un'anima strana e la tua intelligenza è possente... ma su di te pesa la fatalità della tua razza e sei di un irriducibile pessimismo». Mi piaceva ascoltarlo mentre mi parlava di tutto questo in francese, poiché non poteva esprimerlo per mezzo dell'arabo... , Tuttavia preferiva parlarmi nella lingua che amava e io cominciavo molto in fretta a capire. Poi mi diceva, con un sorriso fanciullesco: «Sto morendo di fame... Vieni, andiamo a far colazione». Allora andavamo in una bettola qualunque nelle vecchie strade arabe e mangiavamo allegri. Il travestimento e il sentirmi chiamare ingenuamente Sidi dagli arabi facevano ridere molto Ahmed. Lui, fisolofo scettico e incredulo, stranamente anomalo, aveva conservato tutte le qualità della sua gente. Era di un'allegria infantile e comunicava nei momenti in cui abbandonava la sua flemma un po' sdegnosa, ma era sempre dolce e spesso molto malinconico. In amore, era voluttuoso... Isabelle Eberhardfc t

Persone citate: Abdallah, Arbi, Isabelle Eberhardfc, Rosina Menotti

Luoghi citati: Algeri, El Kasbah Meroui, Sidi