FORCA E POESIA PER VILLON di Lorenzo Mondo

FORCA E POESIA PER VILLON FORCA E POESIA PER VILLON VILLON». Ma quale Villon? Il protagonista di questo atto unico di Roberto Mussapi è proprio lui, il chierico che nella Parigi dell'autunno del Medioevo seppe coniugare malavita e poesia, l'autore del «Lais», del «Grand Testament», della «Ballade des pendus». L'uomo che sapeva scrivere versi come questi: «... Sotto Natale, morta stagione / che i lupi si nutrono di vento / e per la gala verna si sta / in casa vicino al tizzone...». E parlava così della propria morte: «Da una tesa di corda saprà / il mio collo quanto il cui pesa», irridendo a un destino non solo burlescamente ipotizzato ma più volte positivamente sfiorato. Mussapi, che è poeta di costola simbolista, che si è fatto anche saggista e traduttore a sostegno della sua poesia, per la prima volta, credo, si misura con la prosa creativa, nel caso specifico con il teatro. Ci rappresenta Francois Villon in una cella-spelonca, all'ultima avventura che ci è nota di lui, prima che sparisca dalla cronaca ed entri nella leggenda. Aspetta che rintocchino le cinque ore che lo separano dalla forca, «solo nel fondo della società, nel fondo dell'essere». Fermiamoci a questa definizione che egli dà di se stesso, di una doppia miseria. Il suo lungo monologo è segnato infatti dall'impercettibile trapasso dal mondo dei fenomeni a quello dell'essenza: come se il nero fondo, il nero imbuto in cui giace smascherasse le vivide, tracotanti immagini del mondo terrestre, confortate appena dal canestro che scende a portargli bottiglie di vino rosso. Entro le ribalderie dell'età studentesca, l'omicidio e i furti, le tenerezze e le crudeltà di una vi' ta randagia, si fanno strada le riflessioni sul «vano strepito» della storia, sul silenzio pauroso delle cose, sulla poesia come inadeguata, fangosa prosecuzione della «sillabante preghiera» di una madre... Questo movimento sinuoso trova un corrispettivo secco e spezzato nelle Voci che intervengono, dalla bocca di lupo, a pausare la confessione testamentaria di Villon. Una appartiene al guardiano del carcere, l'altra a un enigmatico personaggio che è venuto a interrogare la sua rissosa pietà, la sua inesausta curiosità vitale: proiezione di un cuore messo a nudo, o voce di un Godot che si sia fatto per un momento vivo. Quando gli annunciano la grazia, Villon non appare sorpreso: «C'è sempre stata. Solo che non ce ne eravamo accorti». Secondo la definizione di Domenico Porzio, intelligente prefatore, quello di Mussapi è un teatro di parola, «alimenta uno spettacolo tutto interno suggerito dalla parola». In esso i riferimenti alla biografia di Villon so¬ no precisi ma senza pedanterie, discreti gli intarsi dalle poesie e inesistenti i calchi linguistici, proprio perché così forte è l'immedesimazione fraterna dello scrittore con un personaggio che vuole essere strappato ai secoli andati e ricondotto all'hic et nunc. La fruizione esistenziale più che stilistica di Villon non esclude la percezione acuta e lo sviluppo originale di temi e atmosfere: come la neve, che qui non concede quiete e festa, ma è il regno del silenzio, della solitudine assoluta in cui si muore con la faccia in avanti dopo una notte di perdizione, dove si lasciano tracce incancellabili per la caccia degli sbirri. Lorenzo Mondo Roberto Mussapi Villon Jaca Book pp.58, LI 0.000

Luoghi citati: Parigi