Viaggio-inchiesta nella diplomazia: volti e voci di un mondo che cambia

Feluche sull'abisso, tra i missili e la fame Viaggio-inchiesta nella diplomazia: volti e voci di un mondo che cambia Feluche sull'abisso, tra i missili e la fame Le nazioni e i problemi mondiali: la parola agli stranieri PASSATI irrimediabilmente in secondo piano dichiarazioni ufficiali e intrighi, iniziative cultural-mondane e compiacenze, la diplomazia di oggi affronta problemi tremendi e precisi: fame e sottosviluppo che mietono vite, armamenti che quotidianamente garantiscono al pianeta la possibilità di scomparire in qualsiasi momento, disperazioni non risolte che sfociano in atti terroristici, carestie e intolleranza responsabili di milióni di diseredati, il razzismo che umilia chi ne è vittima e chi lo pratica. Concretezza e consapevolezza dell'interdipendenza fra nazioni e popoli sono diventati assi portanti. Sul cosa significhi diplomazia oggi, e come questo mestiere vada evolvendosi — in un'epoca in cui, tra l'altro, i mezzi di comunicazione acquistano rilevanza sempre maggiore — hanno risposto, nella puntata precedente, alcuni rappresentanti del nostro Paese presso organismi internazionali e Stati. Adesso la parola è agli stranieri: Valdo Luis Willalpando, delegato dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) per l'Italia, San Marino e Malta; Nemer Hammad, direttore della delegazione generale di Palestina a Roma; Hoda £1 Marassy, ambasciatore d'Egitto a Roma; André Coulbary ambasciatore del Senegal presso la Santa Sede; Akbar Mirza Khaleeli, ambasciatore d'India a Roma; Alfredo Allende ambasciatore dell'Argentina a Roma; John A. Boyle, console generale degli Stati Uniti a Milano; Sven Fredrick Hedin' ambasciatore di Svezia a Roma. Per i diplomatici delle Nazioni Unite, è già quotidiana realtà l'impatto sia con tragedie di dimensioni realmente inimmaginabili sia con il contrasto fra le esigenze nazionali e quelle della solidarietà internazionale. In particolare per l'Acnur, continuamente chiamata a mediare fra la protezione dèi diritti fondamentali dei profughi politici e i timori dei Paesi ospiti, dove non di rado il loro afflusso viene paventato quale possibile fattore destabilizzante dai punti di vista demografico, economico e della sicurezza. Oggi i rifugiati, nel mondo, sono 12 milioni: per la stragrande maggioranza donne e bambini, gli uomini o sono morti combattendo o hanno deciso di dedicare il resto della vita a combattere. «Ho imparato cose di cui ignoravo persino l'esistenza», dice Valdo Luis Willalpando (cittadino argentino, fino al '77 avvocato e professore universitario di diritto costituzionale), «per esempio certe malattie tropicali, o le difficoltà specifiche nello scavare pozzi d'acqua, o nell'organizzare villaggi rurali». Altro problema — tremendamente concreto pure questo — la perenne mancanza di fondi. «Di fronte a qualche improvvisa catastrofe umana», racconta, «noi dobbiamo riunire in tutta fretta i rappresentanti degli Stati membri deli'Onu, illustrare l'accaduto e le sue conseguenze, convincerli a darci mezzi per l'emergenza». Si può anche rischiare la vita Ma i momenti più drammatici «arrivano quando ci troviamo nelle condizioni di dover negare la nòstra tutela. Quante volte sono corso in un aeroporto e ho trovato famiglie intere che, magari ingannate da speculatori, avevano, nel loro Paese, venduto tutto, pur di riuscire a partire. E non ho potuto accoglierle. A norma di legge, ho dovuto riconsegnarle al loro destino». Altro che ricevimenti, saloni affrescati e stuoli di segretarie. Diplomazia, oggi, può significare ben altro. Significa pure rischiare la vita: ogni giorno. Anche quando sei in ufficio, ,o in casa. La sede della Delegazione generale di Palestina è in un appartamento di un palazzo come tanti; nessuna targa, niente indicazioni. Servizio di sicurezza duplice, svolto da nostri agenti adeguatamente premuniti e da giovani arabi attentissimi, onnipresenti. Nel piccolo studio di Nemer Hammad ci sono fotografie di Arafat e di Abu Jihad, un vecchio divano, un televisore, tanti posacenere e tanti telefoni, di fronte alla porta/finestra una pianta verde a. foglie striate giallo-rosse. «Qualsiasi diplomatico», dice, «in ogni Paese, corre il rischio di essere colpito da terroristi. Ma non credo esista un altro governo che, quanto quello di Israele, si consideri altrettanto presente dentro e fuori le sue frontiere per uccidere i rappresentanti di uno Stato ostile». Una pausa di pochi secondi precede la conclusione: «C'è differenza fra l'avere paura e lo stare attenti. Io sto attento». Nel '74, quando arrivò, c'erano difficoltà persino per il permesso di soggiorno; è tanto cambiato l'atteggiamento del nostro Paese. Nell'83 Hammad andò ambasciatore in Jugoslavia; dall'87, di nuovo a Roma. Quella sua terra negata gli ha stravolto la vita; adesso non c'è tempo per altro, e da ragazzo voleva fare il medico, era già avanti all'università quando decise di interrompere per laurearsi in scienze politiche. Scriveva anche; una sua commedia ha un titolo di Dostojewski, Delitto e castigo. «Dalla diplomazia dell'Olp», prosegue, «ho imparato la pazienza. Non basta essere sicuri della giustezza della propria causa: bisogna aprire il dialogo, sempre, con tutti. Io faccio il lavoro di un ambasciatore per il 50 per cento del mio tempo. L'altra va in dibattiti, incontri, interviste, interventi per i giornali. Devo tenere vivo l'interesse sulla questione palestinese, perché uno degli obiettivi di Israele è proprio quello di farla passare in secondo piano nell'opinione pubblica. E quotidianamente occorre controbattere la loro propaganda, ch'è capillare, fortissima». Portavoce di realtà, drammi, lacerazioni del proprio Paese, consapevole di vivere in un mondo caratterizzato dalla contraddizione: secondo Hoda El Marassy il diplomatico di oggi è soprattutto questo. Nominata arnb'asciàTofè' Ira Roma, nell'86, El Marassy ha studiato al Cairo e a Parigi, è laureata in lingua e letteratura francese e in economia. «Nel secolo scorso — dice — il nostro ruolo era poco qualificante: più che altro consisteva in una rappresentanza ufficiale che si limitava alla forma. Ma oggi viviamo tutti in un solo mondo, diviso fra ricchi e poveri, conflitti politici e armati, lotte contro il sottosviluppo e la fame, tensioni per cercare di risolvere pacificamente problemi sanguinosi. E ritengo che incoraggiare le soluzioni pacifiche sia tra i primi compiti di un ambasciatore. Bisogna poi distinguere: la diplomazia del "terzo mondo" non è la stessa dei Paesi industrializzati». Corsa alla pace non alle armi Per il rappresentante dì una nazione che, come l'Egitto, ancora non .abbia raggiunto compiutezza di sviluppo, «fondamentale è consolidare la cooperazione, cercare mercati per l'esportazione, reperire fondi, individuare esperti». «Premetterei una constata¬ zione molto semplice — afferma André Coulbary — : se tutti mangiano, e bene, potranno diventare dei partners validi per servire la pace e non la corsa agli armamenti. Abbiamo da troppo tempo privilegiato l'industria; adesso ci accorgiamo che dovunque è invece l'agricoltura a generare maggiori risorse proprio dal punto di vista economico». Laureato in lettere e in inglese, Coulbary è stato ambasciatore del Senegal anche a Washington (dal '71 all'82) e in Svezia. «Specialmente i diplomatici originari del nostro continente — prosegue — devono perseguire un equilibrio generale Nord/Sud, adoperarsi per fare avanzare una visione globale della giustizia economica». Indispensabile la conoscenza della nuove tecnologie, la puntigliosa cura nell'informarsi, il continuo aggiornamento. Il che impone anche di allargare sempre più i contatti. «Una volta forse potevano essere sufficienti quelli istituzionali — racconta Akbar Mirza Khaleeli — ora sono diventati indispensabili anche quelli, per esempio, con le grandi industrie. Qualcuna già pensa, realisticamente, che fra una ventina di anni l'India sarà un grande mercato. Ecco, il mio compito è anche diffondere quest'opinione: non solamente nelle grandi nazioni ma in tutte, perché dovunque può esserci qualcosa da da imparare, da scambiare». Le questioni economiche sono diventate priorità: «Un tem¬ po ci preoccupava soprattutto la sicurezza del nostro Stato; erano in pochi, all'inizio, a credere che noi veramente volevamo essere indipendenti, non allineati né con gli Stati Uniti né con l'Unione Sovietica. In realtà era una scelta ben coerente con la nostra cultura: tradizionalmente considerata una grande sorella, l'India è da sempre lontana dai dogmi; la nostra concezione del potere è essenzialmente spirituale, basti pensare a Budda e Gandhi». Tra Allende e de Amicis Esigenze di sviluppo economico in primo piano anche in Argentina. Nominato ambasciatore dal presidente Alfonsin nell'84, Alfredo Allende è avvocato, ha avuto esperienze giornalistiche e incarichi politici, è appassionato di pittura. La famiglia materna, Busetti, è italiana, imparentata con quella di Edmondo de Amicis. «Favorire gli investimenti che contribuiscano alla crescita economica — dice — comporta conoscenza e aggiornamento nei vari settori: per esempio l'automazione, l'informatica, le fibre ottiche, particolari produzioni di tecnologia altamente specialistica. In ciò siamo favoriti pure dal sistema moderno delle telecomunicazioni, che ci consente di rimanere in contatto con tutto il mondo e di lavorare in modo più creativo». Un sistema che tuttavia può essere fonte pure di qualche complicazione. «Affrontando i vari problemi, anche economici — dice John A. Boyle — un diplomatico deve oggi fare i conti con le pressioni anche del pubblico, sia del proprio Paese sia di quello ospite. L'emotività della gente può assumere peso rilevante. Le accresciute possibilità, di viaggiare, parlare le lingue, leggere i giornali di varie nazioni, fa sì che, rispetto al passato, ci siano più giocatori in campo, e che ognuno di noi debba trovare tempo e modo per esporre il proprio operato davanti alla giuria». Negli Stati Uniti, l'ambasciatore, ohe può non essere un diplomatico, viene designato direttamente dal Presidente, così com'è stato di recente per la nomina di Peter Secchia. Dal Dipartimento di Stato proviene invece Boyle, che, laureato in economia e scienze politiche, è stato anche vice-ambasciatore a Dublino, dopo avere ricoperto altri incarichi in Europa e a Washington. «I contatti diretti — conferma — si fanno sempre più frequenti fra ministri omologhi, fra capi di Stato, soprattutto fra specialisti in materia di cooperazione e sviluppo. E questa tendenza anticipa il mondo del futuro, che sarà caratterizzato da informazioni e scambi sempre più rapidi e ampi». Fra le prime nazioni a'rendersi conto della necessità di orizzonti larghi — anche nel tempo — la Svezia. Un susseguirsi di figure esemplari: il conte Folke Bernadotte, mediatore dell'Orni a Gerusalemme, qui ucciso nel '48, Dag Hammarskjoeld segretario generale delle Nazioni Unite, il primo ministro Olof Palme, il ministro degli Esteri (dal '45 al '65) Osten Oden, tanti altri. In passato quanto oggi, oltre alla visione internazionale, un'altra caratteristica della diplomazia svedese è rimasta invariata: la riservatezza. Secondo Sven Fredrik Hedin, la curiosità verso il Paese ospite è da sempre, ma specialmente oggi, requisito essenziale per chi si dedichi a questa professione: «Di fianco e parallelamente a quelli ufficiali, occorre avere il massimo numero di contatti. Prima di tutto, perciò, è indispensabile imparare la lingua della nazione dove ci troviamo a risiedere; leggere i giornali, almeno quattro o cinque quotidiani e imaggiori periodici; parlare con la gente. Ad esempio, entrare in piccoli bar di provincia, bére un caffè e chiacchierare con gli avventori può contribuire in modo molto significativo a farci conoscere il quadro globale di ima situazione nazionale». Laureato in legge e scienze politiche, quarantanni di carriera trascorsi in Sud America, Europa del Nord e Paesi mediterranei, Hedin concluderà in dicembre il suo mandato a Roma. Ornella Rota Thailandia, 1980. Rifugiati cambogiani in attesa di un tetto dopo i bombardamenti vietnamiti. «La diplomazia d'oggi affronta problemi tremendi e precisi» (Foto Sygma - G. Neri)