IO E L'UNICORNO

IO E L'UNICORNO IO E L'UNICORNO Incontro con Juan Ealava Galdn «Nel Medioevo le crisi di oggi» Eft FIRENZE ^arrivato in Italia / per ritirare, in * Palazzo Vecchio, il premio letterario «Antico Fattore» e subito è stato definito «l'Eco spagnolo». Era inevitabile: Juan Ealava Galàn, pur essendo più giovane, somiglia anche fisicamente all'autore de «Il nome della rosa». Stessa corporatura atticciata, stesso taglio della testa, stessa barba, stesso tipo di occhiali. Anch'egli accademico, la sua specialità è la storia medievale, racconta con sapienza antiche vicende, mescolando realtà e fantasia. Oltre al favore della critica incontra, come Eco, quello del vasto pubblico. Del suo «In cerca dell'unicorno», che sta per uscire da Longanesi nella ottima traduzione di Ada Carbone Calcerano e Maria C. Mascaraque Eche (pag. 252, lire 24.000), e che gli è valso uno dei tre premi finalisti fiorentini, sono state vendute nella sola Spagna, che solitamente non è paese di grandi letture, 620 mila copie in due anni. Non è difficile riconoscerlo entrando nel salone dell'albergo che lo ospita: glielo dicono tutti che sembra Eco e questo, forse, lo disturba un poco. Ma Eslava Galàn sorride e, se accetta la similarità dell'aspetto, per modestia rifiuta di riconoscere l'affinità di scrittura. «Ammiro Umberto Eco profondamente — dice — e penso che stia ben più in alto di me per cultura, stile e abilità narrativa. E' uno scrittore che sa trarre vantaggio dai propri limiti, che è il vero merito degli artisti. Fa dello sperimentali- smo, è vero, ma non si limita a questo». E lei cosa fa, o cosa intende fare quando scrive? «Intendo parlare con la mia voce, dire le cose in maniera lineare, semplicemente. Non uso una tecnica speciale, ma la adatto all'opera che di volta in volta sto'scrivendo. Nel caso di "In cerca dell'unicorno" mi sono rifatto consapevolmente al linguaggio in uso nel XV secolo, quello anteriore al Cervantes, tenendo naturalmente conto del fatto che mi rivolgevo al lettore di oggi». Da cosa ha desunto la storia che narra? «Da una cronaca anonima poco conosciuta che riguarda don Miguel Lucas di Iranzo, Conestabile di Castiglia, e che si interrompe due anni prima della morte di questo. Ritengo che sia stata scritta da Juan da Olid, una persona realmente esistita che è anche il protagonista del mio racconto. In certo modo il mio romanzo completa la cronaca e aiuta a comprenderla». Il suo, dunque, è il racconto di un viaggio nel cuore dell'Africa — reale e metafisico nello stesso tempo — alla ricerca di quell'animale mitologico al quale si attribuiva la capacità di ridare la potenza virile, nel caso specifico al re Enrico IV di Castiglia. Ma il protagonista, dopo innumerevoli traversie, troverà soltanto il rinoceronte... un viaggio anche dentro se stessi che si conclude nel vuoto, nell'abbandono... «Volevo raccontare una storia che riflettesse la crisi spirituale di un'epoca di passaggio che ha molti paralleli con quella che stiamo vivendo. Juan da Olid parte come cavaliere me- dioevale e torna, dopo più di vent'anni, quando c'è già il Rinascimento. I valori — negativi o positivi — che l'avevano sostenuto nell'impresa non contano più. Il re per il quale era andato in cerca dell'unicorno è morto e la regina Isabella che gli è succeduta ha armato le caravelle di Colombo che cambieranno il corso delle umane vicende, mentre il Conestabile di Castiglia, che gli aveva affidato l'incarico, è stato assassinato nella cattedrale durante la Messa come, cinque anni dopo, sarebbe avvenuto a Giuliano de' Medici a Firenze.-..-». Il suo Juan da Olid, a conclusione del suo inutile peregrinare, commenta con amarezza, e sempre in prima persona, che il tempo della cavalleria è sepolto ed è iniziato quello dei mercanti e di coloro che con le loro attività fanno ricco il re... «Solo l'io narrante, mi consentiva di ridare lo stile della cronaca e la mentalità del pro¬ tagonista, che vive la crisi dovuta alla perdita dei valori conosciuti senza averne acquisiti dei nuovi. Del resto, ho dedicato la mia vita alla conoscenza della storia e ho letto più cronache di quel periodo che letteratura moderna...». Com'è stato che, da storico, è diventato romanziere? «Avevo pubblicato saggi, ma scrivevo anche romanzi che non avrei mai pensato di inviare a un editore. Ne ho scritti quattordici, uno dei quali in diciotto giorni, durante un periodo di scioperi a Siviglia, dove vivo e insegno. Mandai "In cerca dell'unicorno" alla giuria del premio Pianeta, nel 1987, quasi per scherzo. E lo vinsi. Il resto è venuto da sé, e sono stato il primo a stupirmene. In seguito ho pubblicato "Io, Annibale", una supposta autobiografia del condottiero cartaginese». Per lei scrivere romanzi è dunque come respirare... «Effettivamente non sono uno sperimentalista. Quando si sperimenta molto penso si abbia poco da dire». Allora è d'accordo con Carlo Bo e con la sua critica agli scrittori italiani d'oggi? «Penso si viva in un momento di grande manierismo e che l'arte, inventando modi sempre diversi per dire la stessa cosa, diventi semplicemente un'imitazione. Naturalmente apprezzo molto lo sperimentalismo di un Joyce o di un Proust proprio perché si basa su qualcosa che questi scrittori avevano realmente da dire. Ma oggi spesso gli autori non parlano con la propria voce, ma alla maniera di altri, e mi pare un inutile gioco». Lela Gatteschi Juari Ealava Galàn

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