IL GRAND TOUR

IL GRAND TOUR IL GRAND TOUR Italiani in Europa dal Medio Evo a oggi Viaggi di mercanti e pellegrini, artisti e sognatori LA vasta bibliografia in nostro possesso sul viaggiatore europeo, specie sette e ottocentesco, che dalle più lontane contrade nord-occidentali «scende» in Italia per spirito pionieristico, per terapie termali, per devozione lirico-archeologica, per ampliamento di conoscenze antropiche, per realizzare il sogno di un facoltoso prozio ancnilosato a Liverpool o a Brema, o solo per poter raccontare agli attoniti compatrioti di essersi cacciato in un covo di saraceni nel Regno delle Due Sicilie, sembra tutt'altro che consumata nello stereotipo, come dimostrano le ricerche condotte da Atanasio Mozzillo e dai suoi collaboratori. E restano ancora sparse parecchie testimonianze di un Grand Tour di segno inverso, italofono, che integra o corregge i percorsi tradizionali, le tappe opzionali, le esclamazioni di precetto. Letterati e uomini politici, artisti, cantanti e mercanti, pellegrini e maestri di cappella che cercano impieghi, commissioni, scritture e miracoli nelle corti, nei teatri, nelle università, nei santuari dell'Europa continentale e insulare e ne scoprono le attrattive, la complessità storica, il diverto patto sociale. Europa non certo «esotica» al modo in cui riuscivano ad esserlo le terre d'Africa o d'Asia, ma ugualmente seduttiva (donde i molteplici «ratti» nella pittura di Paolo Veronese, del Tiziano, di Giovan Battista Tiepolo, di Simon Vouet, di Guido Reni...), ugualmente eccitante a ogni stazione di posta, e tuttora enigmatica nell'etimo, stando alle conclusioni di Manlio Cortelazzo. Quello di Cortelazzo è appunto uno dei nove contributi (preceduto e seguito dalle dense pagine di Manca Milanesi, Franco Cardini, Daria Perocco, Gino Benzoni, Piero Del Negro, Anna Laura Bellina, Agnese Visconti, Isabella Pezzini) che impreziosiscono il volume dedicato dalla Electa ai «Viaggiatori italiani» dal Medioevo al Ventesimo Secolo nel continente che ci concerne, e suppongo voglia rappresentare simultaneamente un tempestivo omaggio al 1992, un ex voto dell'impresa individuale nei cortocircuiti del turismo di massa, il piacere di osservare da vicino il tipico e l'atipico delle singole strutture prima che svaniscano nel culto comunitario. Indispensabile strumento nelle cavalcate del millennio resta a lungo, si capisce, la cartografia di fonte tolemaica, via via corretta dalle carte nautiche elaborate a Genova, a Veneeia, a Lisbona, ad Amsterdam; ma già sul finire del Cinquecento, grazie agli apporti di Copernico e di Tycho Brahe, non c'è paese europeo, che, ad eccezione della Russia settentrionale, non abbia una sua carta di approssimata fedeltà. In qualche caso, essere fedeli alla configurazione topografica significa fondamentalmente esaltare la regione nativa del cartografo — sorta di amoroso inventario di chiese di boschi di castelli di corsi d'acqua in forte evidenza cromatica — come nella «mappa mundi» di Ebstorf (Bassa Sassonia); o assecondare una soggettiva scala di eventi, come nella Tavola di Velletri il cui anonimo autore stravede, si direbbe, per l'Europa orientale, largheggiando sugli scontri tra i Cavalieri Teutonici e i Lituani, al punto che la geografìa sembra mettersi al rimorchio della storia; o profittare di un mezzo comunicativo di successo per rafforzare orgogli nazionalistici e sottolineare l'inattaccabilità dei propri confini, come è dato avvertire nelle mappe degli olandesi che visualizzano il loro territorio in forma di leone ruggente. Più o meno dotati di vademecum attendibili, gli italiani che si spingono in Galizia, in Bretagna o sul Mar Nero, quando il viaggio sottintende un'avven¬ tura totale, hanno in genere esigenze mirate da soddisfare: commercio, servigi militareschi, ambascerie,, nozze araldiche. Sarebbe però ingiusto, ci rammenta Franco Cardini, generalizzarne l'avidità, il carattere esclusivamente pragmatico, nonché la punta di coccoloneria che li prende fuori di casa (vedasi, ad esempio, l'ambasciatore in Spagna, Andrea Navagero, che rimpiange il suo giardinetto di Murano mentre visita l'Alhambra...) e insomma ritenerli incapaci di vagabondaggio «gratuito», edonistico, contemplativo, nell'internazionale dei cavalieri erranti. Agli attestati forniti dalla letteratura alta (valga per tutti la Francia del «Decameron», la Parigi in cui lungamente si vive e si studia «non per vender poi la sua scienza al minuto, bensì per sapere la ragion delle cose e la cagion d'esse») corrispondono straordinari resoconti di mercanti-scrittori quali Bonaccorso Pitti, Paolo Giovio o Paolo Minio. Alle figure di cortigiani professionisti, di cinici arrampicatori che escono dal loro agro baronale per accaparrarsi oltralpe un feudo, una corona in oscure trame dinastiche, corrispondono candide creature che ignorano gloriosi tornei, lucro e miraggi nobiliari, come quel Malatesta Ungaro che raggiunge in Inghilterra la grotta di San Patrizio dove si praticava l'«incubatio» e si avevano visioni dell'Aldilà, allo scopo d'incontrare l'anima di una sua amante uccisa dal geloso consorte. Oppure estrarre dai viaggi sperimentati e raccontati, nell'analisi di Daria Perocco, il rapporto dall'Alemagna di Francesco Vettori che, per arguzia e distacco narrativo, spesso richiama il «Journal» di Montaigne. Vettori, profondamente scettico sulla bontà degli individui, ossessionato dall'Inganno che a suo parere costituisce il sinistro, immodificabile regolatore delle passioni umane, non esita a recitare un pedagogico atto di fede a prò del viaggio in sé, riscattato dalle sue componenti utilitaristiche «perché — annota — intra li onesti piaceri che possano prendere gli uomini, quello dello andare vedendo il mondo credo che sia il maggiore; né può essere perfettamente prudente chi non ha conosciuto molti uomini e veduto molte città». Il «prudente», che sta tutt'intero per virtuoso, per saggio, perverrà tuttavia alla pienezza della sua esperienza solo se potrà giovarsi di alcuni supporti fisici e ambientali che sarebbe stolido sottovalutare. E qui Francesco Vettori, cedendo a un divertito impulso di generosità, ci partecipa la sua filosofia della peregrinazione; «filosofia» che volentieri vedremmo riportata nei dépliant di prospere agenzie, qualora non si tema di suscitare paleoturistiche remore nell'affezionata clientela. «Bisogna che chi ha a ire a torno — scrive messer Francesco attardandosi in un'osteria del Tirolo o della Baviera — abbi più condizioni: e prima che sia robusto e sano, che sia ricco et abbi compagnia facile e sollazzevole. E se alcuna di queste qualità manca, il cammino non piacevole ma pieno di dispetto diventa». Il tema della disponibilità finanziaria è un po' il chiodo fisso dell'autore e perciò viene ulteriormente ripreso e sviluppato: «Quello che ha a pensare dove abbi a trarre i denari o che li ha con difficultà, non può pigliare piacere de' viaggi perché li duole soprastare un giorno di più in una città; piglia alterazione nel far conto con l'oste, guarda se ha speso un ducato più che il compagno...». Derisa la morale del girovago che ha per tetto il cielo, messa in chiaro senza ipocrisia la vocazione burgense (chi più ha più è), messer Francesco riconosce come decisivo l'affrancamento da obblighi esteriori, da prestazioni programmate: «Et oltre a tutte queste cose bisogna essere libero, né avere faccenda alcuna, e poter stare quindici dì in una città, andar per terra, andar per acqua e non essere ubrigato a niente». E aggiunge con una sfumatura di afflizione: «Io nel viaggio ero sano, con buona compagnia, con denari perché non sono avaro et allora ne potevo spendere; ma non avevo questa ultima condizione d'esser libero et ero necessitato seguire lo Imperatore et andare dove mi era detto». Obbligato dunque, «ubrigato» a seguire le bizzarrie dell'imperatore Massimiliano I, proprio lui il teoreta del libero tempo in libero spazio! Ma subito si affretta a tranquillizzar- ci: nonostante le interferenze imperiali, «pur ebbi gran contento e a cuor leggero scrivo tutto quello che mi occorse», compresi i coloriti episodi ascoltati nelle locande transalpine, i filtri, le magie, i tradimenti che lasciavano a bocca spalancata i poveri avventori di campagna, e compresa la vicenda della servetta non ancora goldoniana che, per vendicarsi di un giovane passeggero che le si era negato, gli avvelena la colazione sul far del giorno. Guide ragionate, guide illustrate a uso di scelti gruppi di rampolli e di fanciulle m fiore si moltiplicano, si sa, nel corso dell'Ottocento e all'inizio del Novecento, con un occhio infregoiito agli sbuffi della locomotiva e l'altro, un po' torpido, ai finestrini della diligenza (l'epica diligenza di un De Nittis, o la diligenza da Catanzaro per Reggio «con mazzi di rose sulla cassa e sulle portiere», nella descrizione di Fran§ois Lenormant). A parte taluni deliziosi arcaismi, le auliche equipollenze lessicali e il disperato tentativo di rendere intellegibile in area apula o molisana il «bruschinetto da denti» o «l'ago da stringhetto», il signor Coxe aveva intuito con notevole anticipo l'evolvere del mercato e avrebbe perciò diritto a una menzione speciale nelle onoranze dell'Europa Unita. Un'imniagine che evoca il sapore dei viaggi nel passato. Muoversi attraverso l'Europa era spesso un'avventura piena di sorprese e incontri