Cocteau regista «in stato di grazia»

Cocteau regista «in stato di grazia» La Mostra di Venezia prepara una retrospettiva che sarà proposta in settembre Cocteau regista «in stato di grazia» Tre periodi tracciati con «l'inchiostro di luce» DI sicuro la retrospettiva di Jean Cocteau che la Mostra di Venezia proporrà in settembre, rappresenterà per la maggior parte dei critici e degli appassionati un proficuo esercizio di non conformismo. Anche in quest'anno centenario della nascita (Maisons-Laffitte, 5 luglio 1989) si tende infatti a rinchiudere Cocteau in quel tipo mondano e tuttavia scostante che le mode e gli anni hanno progressivamente cancellato. E' giusto che non c'importi sapere che cesellò personalmente l'elsa dello spadino imbracciato all'Accademia e che non ci colpisca apprendere dai suoi aforismi che quando un'opera sembra in anticipo sulla sua epoca, è semplicemente perché l'epoca è in ritardo su di essa. E magari ascoltarlo sentenziare che dietro ogni nostra importante creazione ci sarà sempre «una casa, una lampada, una minestra, del fuoco, del vino, delle pipe» e che «bisogna essere un uomo vivente e un artista postumo». Tanto più che si dimostra contraddittorio, lui che aveva per primo chiamato il cinema come decima musa, allorché dice che «un'opera d'arte deve soddisfare tutte le muse, ciò che si chiama la prova del nove». Invece il suo itinerario cinematografico, concentrato senza esibizionismi in pochi titoli raggruppati in tre periodi lontani, merita una riconsiderazione. Claude Mauriac ha ripreso una definizione di Cocteau stesso (il cinema ossia l'inchiostro di luce) per precisare che si tratta d'inchiostro simpatico. Soffiarci sopra un istante, e apparirà la magìa. Siamo comunque lontani dalla condanna di Sartre: «Principe della moneta falsa». Il cinema di Cocteau ha l'opportunità di piacere alla nostra generazione perché non pretende di ammaestrare né di stupire. Nei discorsi del regista e sul regista torna spesso un termine insolito per un creatore d'immagini, il termine gràce. Durante le sue riprese, testimonia l'attore e compagno Jean Marais, si stabiliva un'atmosfera di buona grazia che impediva di avvertire la stanchezza; dello scenografo preferito Christian Bérard, Cocteau in persona rammentava che sapeva evitare con grazia infallibile il falso fantastico; e a Roberto Rossellini aveva affidato con giòia la riduzione di La voix humaine perché ne aveva la grazia, quest'uomo che con Paisà aveva firmato un capolavoro il quale permetteva a un popolo di esprimersi attraverso un uomo e a quest'uomo di esprimersi attraverso un popolo. Dunque Cocteau non era un passatista se riconosceva il lacerante apporto del neorealismo allo sviluppo del linguaggio. Ma gli sarebbe parso di andare fuori misura e di cadere in dis-grazia se si fosse accodato a una moda. Aveva con Le sang d'un poète filmato di getto la sua opera prima nel '30 approfittando del milione elargito dal Visconte di Noailles, il mecenate che contemporaneamente consentì a Bunuel e Dal! di girare L'auge d'or. Potendo disporre di un'analoga disponibilità solo nel '50, avrebbe allora dato con YOrphée un aggiornamento della sua poetica e con Le testament d'Orphée nel '60 l'opera di distacco. Per di' più le sue concezioni teoriche, senza essere rivoluzionarie, brillavano per chiarezza. Se ad esempio un autore rinuncia a montare il proprio materiale si riduce alla stregua d'un autore tradotto; le menzogne d'un artista, secondo il modello di Goethe, rendono onore a quella che è la verità dell'artista; l'inseguire la poesia conduce a pessimi risultati mentre l'artefice licenziando l'opera si comporta quasi avesse costruito una tavola (al pubblico poi il compito di mangiarci su, o d'interrogarla, o di metterla sul fuoco). Esprimendosi quindi con felice stramberia, Cocteau metteva in guardia dal confondere l'ebanista con lo spirito: «Io fabbrico una tavola e non ho motivo di curarmi di quanto capiterà in seguito a questa tavola. Io sono ebanista. Dopo arrivano gli spiriti, mettono le mani sulla tavola e cercano di farla parlare. La tavola parla oppure non parla. Ma è raro essere un ebanista-spirito. Sarebbe come domandare ai fiori di leggere un trattato di orticoltura». Sembrerà a nostra volta di esprimerci a forza di battute, ma davvero la poetica di Cocteau cineasta è tutta racchiusa nella sua prima inquadratura in senso assoluto. Nell'episodio iniziale di Le sang d'un poète intitolato «La mano ferita o le cicatrici del poeta», l'artista s'accorge con orrore che la mano ferita da lui stesso disegnata sta diventando reale e vorrebbe cancellarla, ma essa si sovrappone con il sangue al palmo della propria mano. Cent'anni dopo con Orphée il narcisismo del poeta e la fusione tra mondo delle cose-mondo dello spirito continuano a esagitarlo. Il cast del film ricco di Jean Marais, Maria Casarès, Maria Dèa, Frangois Périer, Roger Blin e Juliette Greco, gli permise una moderata circolazione. La lunghezza di Orphée, doppia rispetto ai 53' del mediometraggio d'esordio, promosse Cocteau ad autore in qualche modo commerciale e addirittura attrazione della Mostra di Venezia del '50. Attorno a quegli anni si era sviluppata una vena di regista che guerra e occupazione con relativi equivoci avevano soffocata. Pochi ricordano la collaborazione a Les dames du Bois de Boulogne, una riduzione da Diderot per Bresson nel '45, che consentì stavolta al produttore Raoul Ploquin una rassegnata battuta: «Vuol dire che avrò del Bresson più del Cocteau!». Non si poteva dare compenetrazione nello stile di due talenti divergentissimi. Negli Anni Quaranta dunque tre titoli ravvicinati con Jean Marais in primo piano: La Belle et la Bète, L'aigle à deux tètes e Les parents terrìbles. Di quest'ultimo — consueto nido di vipere nell'ambito di una famiglia borghese — Cocteau ideò una versione che superava la sua stessa approntata per il teatro: movimenti di macchina rarefatti, promozione dello spazio à protagonista, vicenda rinserrata tra i quattro muri di casa che dà l'impressione non già di spiare da una tenda ma di essere veramente là, nel mezzo dell'azione, e con intendimenti critici. Di Lo Belle et la Bète il critico e cineasta René Gilson esalta non tanto l'aspetto fantastico ma il valore morale e mitico; di L'aigle à duex tètes sostiene che si tratta d'un capolavoro misconosciuto che ci rende colpevoli del delitto flagrante di oblio. Vuol dire che le proiezioni, al Lido varranno come promemoria in merito. Dell'ultima opera—Letestament d'Orphée uscita nel '60 tra le esplosioni della Non velie Vague — si sarebbe tentati di dire che il rifiuto da parte degli spettatori di aprire questo testamento estetico, indicava un definitivo cambiamento nel gusto che non concedeva più spazio a fumisterie e ossessioni. Jean Cocteau però diceva spesso che in ogni caso i giovani gli avevano sempre insegnato qualcosa, le persone di una certa età no. Ebbene un giovane di allora, Francois Truffaut, ha lasciato scritto che Le testament d'Orphée è un film ammirevole. Piero Perona a l e a a i o n a o a e a e di o si n agnn a g a oal VtcrdnYdmdtzrrimdgdasclctctflvlfmplvnpnt Cocteau a Venezia nel luglio del 1956. Ora la città gli dedica una retrospettiva

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