L'Amleto di Budapest

L'Amleto di Budapest Mentre Budapest riabilita Imre Nagy, muore il personaggio più controverso del dopoguerra ungherese L'Amleto di Budapest Kadar, schiavo del compromesso UN giornalista scrisse di me che ero "uno schiavo del compromesso". Desidero dire che non la ritengo una definizione insultante. Io sono stato a lungo a favore di ogni compromesso che aiutasse la causa per la quale avevo lavorato e lottato». Schiavo del compromesso, Janos Kadar lo divenne per sempre il primo novembre del 1956, quando varcò la soglia dell'ambasciata sovietica e consegnò al suo destino il capo del governo, Imre Nagy. Kadar divenne primo segretario del partito, e lo rimase per trent'anni. Nagy, arrestato con un tranello, rifiutò ostinatamente i patteggiamenti che forse gli avrebbero salvato la vita; e morì sul patibolo. Trentatré anni dopo, uno strano complotto della storia ha posto di fronte Kadar e il suo spettro. Due funerali a distanza di poche settimane. E certamente l'addio a Kadar non avrà la grandiosa solennità del rito col quale Budapest e il governo hanno restituito a Nagy l'onore politico. Il gran vegliardo del comunismo ungherése era diventato scomodo perfino per il partito, che lo aveva dimesso dal Comitato Centrale. Quanto più la stampa innalzava Nagy, tanto più l'immagine di Kadar sprofondava. Se è vero quel che ci raccontava il suo ex segretario, Ribanszki («Kadar ha supplicato la guardia del corpo, che stava con lui da quindici anni, di sparargli») la morte dev'essergli sembrata una liberazione. Ma neppure da morto potrà sottrarsi a quel confronto con Nagy che lo insegue e che ancora spacca il marxismo europeo. Se per Miklos Vasarhelyi, portavoce di Nagy, con il quale condivise il processo, Kadar è stato e resta un traditore (di Nagy, dei compagni, del socialismo e dell'Ungheria), Giancarlo Fajetta si schiera col vecchio amico. «Kadar passò con i sovietici ma salvò l'Ungheria. E rese possibile quella riconciliazione senza la quale adesso la situazione interna non sarebbe la stessa. Nagy ordinò all'esercito di resistere all'Armata Rossa e poi andò a rifugiarsi nell'ambasciata jugoslava. Sì, scelgo Kadar. Anche se sono stato il primo a definire assassinio l'impiccagione di Nagy», (applaudita da Togliatti). Chi era allora Kadar? Un Amleto di Budapest, tragico e sofferto, che sacrificò alla patria comunista la testa degli amici e l'onore? O un prodotto ben riuscito della selezione stalinista, che tradì alleati e aspirazioni nazionali per salvare se stesso e la tirannia del partito? Era nato a Fiume, il 26 maggio 1912, figlio di una cameriera slovacca e di un soldato che non lo riconobbe. Entrato a ventun anni nel partito comunista clandestino, sconta sette anni sotto il regime di Horty. Alla fine della seconda guerra mondiale è, con l'amico Laszlo Rajk, l'astro dei comunisti non «moscoviti» (ha combattuto la Resistenza in Ungheria). Nel 1949, quando Rakosi e i sovietici processano Rajk, anche Kadar, allora ministro del- l'Interno, tenta di convincere l'ex amico a «confessare» un immaginario complotto filo-Tito. Una collaborazione che non lo salva, due armi dopo l'impiccagione di Rajk, dalla stessa accusa di titoismo e intelligenza col nemico. Torturato, condannato all'ergastolo, viene scarcerato nel 1954 insieme agli altri detenuti politici. Anche lui deve la libertà al primo governo di Nagy, insediatosi dopo la morte di Stalin. Durante la rivolta del 1956 è di nuovo nel vertice del partito. Condivide tutte le decisioni del secondo governo Nagy fino al primo novembre. Quella mattina, con il Paese in armi, registra alla radio un discorso sul «glorioso sollevamento del nostro popolo». Poi va all'ambasciata sovietica. Ricorda Vasarhelyi: «Tornò il suo autista e disse che appena arrivati in ambasciata i soldati sovietici lo avevano circondato e condotto dentro; sua moglie, presente, aveva avuto una crisi isterica». Da quel momento Kadar sarà, per buona parte degli ungheresi, il simbolo del tradimento. Secondo Vasarhelyi, sarebbe stato condotto in Unione Sovietica, e lì convinto da Kruscev a schierarsi con Mosca. Il 4 novembre, l'Armata Rossa schianta la «rivoluzione ungherese». Kadar diventa il numero uno di un partito tornato stalinista che reclama vendetta. Si aprono gli anni della spietata «normalizzazione», delle for¬ che, del processo Nagy. Gli impiccati sono centinaia. Se è Mosca che detta il massacro, Kadar è perlomeno un suo complice morale. In positivo, l'uomo del compromesso viene fuori dopo. Nel 1963, amnistia: escono molti condannati per i fatti del 1956. Gyorgy Lukacs può far crescere, con la «scuola di Budapest», un laboratorio marxista svincolato dall'ortodossia sovietica. Gli intellettuali e la società godono di una certa libertà, minima ma insolita se paragonata con i regimi dell'Est. Nel 1968, perfino ima nuova politica economica che apre le porte al mercato; il suo teorico è un socialdemocratico, Reszo Nyers, attuale numero imo del partito. Certo, lo «schiavo del compromesso» manda anche i soldati ungheresi a soffocare la primavera di Praga; e il «nuovo meccanismo economico» viene in parte smantellato perché a Mosca pare troppo liberale (poi il Paese verrà addormentato con quel po' di benessere fìttizio, costruito con i crediti forniti dall'Occidente). Ma non viene smantellata l'anomalia di un un regime poliziesco che autorizza una certa libertà, per quanto minuscola e confinata entro il patto Radarista, sintetizzato così: chi non è contro di noi, è con noi. , E' il migliore dei compromessi possibili con la geopolitica di Yalta, o piuttosto un astuto tentativo di razionalizzare e rendere accettabile un regime che è stato legittimato da un tradimento? Di fatto, sarà questa «liberalità» a far crescere nel partito quel gruppo riformista che nell'87 scalza Kadar, e poi addirittura lo umilia. Una fine che non meritava, dice Pajetta ricordando, quel giorno a Yalta o quell'altro a Budapest, il Kadar di tanti incontri, affabile, modesto, arguto. Il politico «estremamente prudente» che però rivendica l'autonomia ungherese con una battuta folgorante: «Quando a Mosca piove, noi non apriamo l'ombrello». O con un apologo: c'era un curato che all'inizio di ogni anno riusciva a prevedere tutto quello che sarebbe successo in Ungheria. «Come fai?», gli chiesero. E lui: «Basta leggere la storia sovietica, noi adesso siamo a pagina 85». «Ma ora non è più così», garantiva Kadar. E ancora, il Kadar pragmatico che avverte l'ex prigioniero politico: «Se non vi avessimo arrestato, e non è stato bello, avremmo dovuto mandare i soldati ad affrontarvi nelle piazze, e sarebbe stato peggio». Ma il Kadar più autentico, probabilmente, è anch'egli un compromesso: tra il traditore e il patriota, lo stalinista e il riformatore, la politica e l'etica. Un compromesso impossibile, ha detto l'Ungheria che dopo aver sepolto, con Nagy, il kadarismo ora seppelisce Kadar. Guido Rampoldi Janos Kadar mentre parta dalla tribuna del XII Congresso del partito operaio socialista ungherese tenutosi nel 1980 BUDAPEST. «Con profondo dolore dei membri del partito e del popolo ungherese, il compagno Janos Kadar (77 anni) è deceduto in seguito a una grave rcp'attia». Il comunicato del 'Comitato Centrale del partito operaio è stato lei*c mattina dalla Radio ungherese. Al potere per 32 anni, Kadar è morto mentre la Corte Suprema di Budapest riabilitava Imre Nagy, la sua principale vittima.